Per quasi trentacinque anni, l’artista multimediale e DJ Tony Cokes ha unito testo, suono e immagine in film critici che giocano con i colori primari, con i detriti di frammenti pop-culturali e con voci polivalenti. In occasione di “This isn’t theory. This is history”, la sua prima personale in Italia, il Museo MACRO presenta quindici dei suoi lavori nei mille metri quadrati delle gallerie che ospitano la sezione “Solo/Multi”. Si inizia da Black Celebration (1988), un’esplorazione debordiana delle rivolte razziali degli anni Sessanta, da vedere sotto una nuova prospettiva dopo le proteste del Black Lives Matter della scorsa estate; per poi terminare con Evil. 81: Is This Amrkkka? Joe Nice Speaks (2021), un’opera appena commissionata che utilizza come apparato testuale le critiche mosse dallo YouTuber Joe Nice alla politica sulla giustizia razziale di Joe Biden. La mostra analizza tutte le sfaccettature dell’attività di Cokes, tra appropriazione testuale, studi culturali e un ampio catalogo di riferimenti musicali. Per l’occasione ho parlato con Cokes, che ha sempre la traccia giusta per ogni momento, del ruolo della musica nel suo lavoro e più in generale nella cultura.
Canada Choate: Da cosa parti quando concepisci una nuova opera, dal testo o dalla musica?
Tony Cokes: È piuttosto difficile rispondere in maniera definitiva e duplice. Credo di potere affermare che la musica e il testo si influenzano a vicenda durante il processo di creazione. Vedo la musica – i suoi metodi di produzione, i tropi e gli effetti – come il primo livello del mio lavoro, non come qualcosa da aggiungere alla fine per creare atmosfera. Solitamente è la prima cosa a cui mi dedico e spesso la tempistica, l’arco di tempo e tutto ciò che sta intorno a un lavoro è strettamente legato al suono. Lavoro per strati e giustapposizioni, quindi ho bisogno di tempo affinché la relazione fra testo e musica sia quella giusta.
CC: Ascolti mai radio commerciale?
TC: Mi ci imbatto spesso per caso. La maggior parte dei miei amici musicisti sembrano odiare l’onnipresenza della musica pop nello spazio pubblico. Io la vedo, a volte, come un mezzo per iniziare a riflettere su fenomeni culturali più ampi, oppure un’improbabile risorsa per i sottintesi politici – ad esempio si potrebbe analizzare l’utilizzo della musica pop nella campagna presidenziale negli Stati Uniti, oppure nei programmi di tortura come ho fatto in Evil. 16: Torture Musik (2009-2011). Un mese fa circa ho iniziato ad ascoltare la musica di Britney Spears alla luce della sua battaglia per riavere la sua carriera e la sua autonomia personale. Non so se diventerà un vero progetto, ma potrebbe essere un modo per ripensare alla mia relazione con la radio.
CC: Aggiungere la componente musica a un testo di cui ci si appropria concatena voci provenienti da tempi diversi, per non parlare di tutte le mani e le altre condizioni che concorrono alla creazione di musica registrata e prodotta. Pensi a questi elementi in dialogo o in tensione gli uni con gli altri? Questa sovrapposizione di strati complica la lettura diretta del singolo elemento?
TC: Mi piace pensare che il contenuto testuale e le caratteristiche musicali complichino la presentazione del testo e l’esperienza di lettura di esso, riformulandolo e forse interferendo con le sue forme di leggibilità normative. Questo dovrebbe incoraggiare lo spettatore a riflettere sui cambiamenti di contesto, sulla modalità di produzione e sulle tensioni tra il testo e il suono. La musica fornisce spesso un tipo di montaggio e di drammaticità divergente rispetto al “significato” atteso e all’effetto del testo da solo. Il livello di tensione varia, ma la familiarità dell’ascolto della musica pop rende palese l’enorme divario che c’è tra suono e testo. Anche se sembrano funzionare bene insieme, la distanza rimane.
CC: Qual è il ruolo dell’attaccamento e della memoria nelle tue scelte musicali? Ogni spettatore si avvicinerà al tuo lavoro con la propria comprensione del significato culturale e personale di una canzone come “Inner City Blues (Make Me Wanna Holler)” di Marvin Gaye, che hai utilizzato all’inizio del tuo nuovo lavoro, Evil. 81: Is This Amrkkka? Joe Nice Speaks.
TC: Come alcuni dei miei DJ preferiti, penso sia utile ed efficace iniziare un set con una traccia che abbia un certo peso storico. Mi approccio alla musica, come quella di Gaye, senza nostalgia per un momento che è passato, anzi, ho incluso la canzone per segnalare che alcune tracce delle sue preoccupazioni continuano a perseguitarci restando irrisolte. Anche se il resto della colonna sonora presenta momenti musicali successivi, più vicini al presente o di un passato recente, sottolinea le inquietanti continuità nel modo in cui le persone nere sono state e continuano a essere trattate, nel corso della storia dal potere. Forse vedo la memoria più come uno strumento capace di creare consapevolezza e controllo su presente e futuro, che come rifugio o veicolo immaginario per tornare a un tempo migliore, senza conflitti e più felice – un tempo che non è mai esistito per persone come me.
CC: Una volta hai scritto “Blackness is both rock’s center and its margin”. Puoi parlarmi della relazione tra la cultura afroamericana e il pop?
TC: Per un bambino cresciuto a Richmond, in Virginia, durante il presunto declino di Jim Crow sembrava che molti dei generi di musica pop, che ho assorbito dai miei fratelli, avessero origine dalle tradizioni orali afroamericane. Crescendo, la questione di chi produce, distribuisce e guadagna da queste forme registrate è diventata più complessa. Ho avuto bisogno di molto tempo per iniziare a capire le strane relazioni fra i pubblici bianchi e le forme di produzione nere. Sono complessità che persistono ancora oggi, nonostante sembri che molto sia cambiato con la proliferazione dei generi, delle loro tecnologie di produzione e circolazione, e il desiderio e le aspettative del pubblico. Penso che buona parte dell’intrattenimento popolare si basi sulle divergenze e sulle azioni di resistenza dei soggetti della comunità afroamericana alle convinzioni sulla razza, sulla classe, sulla sessualità, sulla società e sulle normative di genere, che persino la mercificazione sta cercando di eliminare.
CC: The Morrissey Problem, del 2019, affronta la questione della possibilità di separare il divario fra un artista problematico e il suo lavoro. La musica di accompagnamento di McCarthy ha le stesse sonorità jungle-pop degli Smiths. Perché questa scelta?
TC: Forse ho utilizzato la colonna sonora per confondere leggermente e destabilizzare le aspettative degli spettatori. Speravo che qualcuno potesse pensare che la musica fosse effettivamente degli Smiths, ma dato che li avevo già usati in Evil. 27: Selma (2011), ho ritenuto che avesse più senso modificare maggiormente le relazioni tra suono e testo. A volte, il cosiddetto gesto pop derivato funziona in modo diverso, e forse migliore, rispetto a quello “originale”. La popolarità di McCarthy è nata sulla scia degli Smiths, ma come spesso accade, ci ho messo del tempo prima di riuscire a cogliere le somiglianze e le differenze. Quando li ho incontrati a una certa distanza storica l’uno dall’altro, ho avuto la sensazione che i testi di McCarthy fossero meno letterari e più acutamente critici di quelli di Morrissey. È stato produttivo introdurre McCarthy come una “brutta copia” leggermente corrosiva. Tuttavia, non penso si debbano sapere tutte queste cose da nerd della musica indie per comprendere e apprezzare il mio lavoro. Anzi, non riuscire a distinguere McCarthy e gli Smiths, oppure chiedersi perché compaiano in The Morrissey Problem, può essere produttivo. Come sembrerebbe avere detto Lautréamont, “Il plagio è necessario. Il progresso lo richiede”.
CC: Pensi che la musica pop abbia una potenziale rivoluzionario, o che lo abbia mai avuto? Oppure è troppo legata alla cultura del capitalismo per riuscire a staccarsene? Se il potere politico della musica non è poi così potente, qual è il suo ruolo nella cultura, e cosa puoi dirci sulla storia?
TC: Non credo nel conforto del cinismo. Penso che la musica pop abbia un potenziale rivoluzionario se pensiamo e agiamo come se lo avesse. Spesso sembra che la musica precede e riflette delle trasformazioni sociali, per questo trovo difficile immaginare un movimento sociale senza musica. Ovviamente, se non crediamo che la trasformazione sia possibile, allora è probabile che questo potenziale non si esprima. Le canzoni pop possono riflettere dei fatti sociali, delle fantasie e delle possibilità cruciali, anche quando il loro messaggio è semplice ed esprime il desiderio di ballare, amare e sopravvivere alle difficoltà e alle circostanze oppressive.