Cosa sarebbe successo se Massimo Grimaldi, vincitore del concorso indetto dal MAXXI, avesse dichiarato di voler devolvere i 700.000 euro del premio alla Caritas in vista della costruzione di un orfanotrofio italiano? Non ci è dato sapere. L’unica certezza è che non avrebbe riscosso la stessa pietas da parte dei giurati come con la costruzione di un ospedale pediatrico in Africa, perché solo la potenza di un simbolo poteva toccare le coscienze di una giuria che avrebbe valutato il suo progetto in termini sia etici che estetici. Poiché è facile equivocare il doppio statuto che permea questa operazione certamente anomala, idealizzando il suo momento “etico-pragmatico” (che occorre ridimensionare) fino al punto da considerarlo come fosse esso stesso l’opera, e svalutando il suo momento “estetico-simbolico” (che occorre invece riscattare) fino al punto di non coglierlo affatto, allora forse è il caso di riportare l’attenzione all’opera effettiva e all’ambito che propriamente le compete: l’esposizione del materiale documentativo attraverso il tipico slide-show utilizzato dall’artista all’interno dei monitor della Apple, in questo caso inserito in una vetrina del MAXXI che ne fa le veci.Ora, se nessuno è legittimato a mettere in dubbio l’integrità morale di Grimaldi, va detto che l’artista ha scommesso, insieme alla giuria, su un contratto commerciale irrinunciabile: vi finanziamo un ospedale, ma a patto di poter registrare i lavori di costruzione e la sua attività una volta terminato. Nessun dono caritatevole con conseguente potlach del premio in denaro, dunque, solo un investimento economico, certamente utile a salvare delle vite innocenti così come a corroborare un contesto artistico-imprenditoriale, “concesso” da una controparte più forte a una più debole in cambio di qualcosa. Se un ricatto morale c’è stato, esso è stato perpetrato nei confronti di Emergency e dei bambini, e non certo a dispetto di una giuria che insieme a Grimaldi e a noi tutti è ineluttabilmente consumista, interessata e affarista, anche quando agisce nelle migliori intenzioni. Quei bimbi incubati nell’algida vetrina del MAXXI non sono stati aiutati, ma solo lautamente ricompensati. Per cosa? Per essere stati ingaggiati in quanto Maschere di un Teatro, il cui palcoscenico non è altro che lo spazio metaforico dell’arte destinato a un “intrattenimento responsabile” dello spettatore: già estranei a noi stessi, sappiamo solo monitorare ovvero ammirare in vetrina un mondo che ci illudiamo di abitare, ma che per lo più osserviamo voyeuristicamente, attraverso la lente impersonale di apparati tecnologici che ci hanno privato del ruolo di attori per ridurci a spettatori distaccati e passivi, ma soprattutto consumatori di uno (slide)show che necessariamente “must go on”, da cui l’aggiornamento continuo dell’hardware. Questa “opera d’arte”, a differenza dell’azione in presa diretta operata da Grimaldi, non parla tanto d’Africa quanto, purtroppo, di noi.
Solo il rinunciare alla componente artistica del progetto avrebbe fatto del nostro mondo quel mondo migliore e più autentico che in nessun modo è — e infatti, in quel caso, cosa mai avrebbe potuto votare la giuria? Quest’opera è allora “al di là del bene e del male” perché rintraccia una verità superiore e altamente contraddittoria che li contiene entrambi: mentre sul piano pragmatico-imprenditoriale fa realmente del bene, identifica il nostro vero volto, che è ambiguo e alienato ma soprattutto, come il male di Kafka, “parassitario”. Facendo, se vogliamo, due volte del bene. Anche lo “scetticismo dichiarato e perseguito da Grimaldi nei confronti dell’arte e della sua funzione nella società” (Alessandro Rabottini) mostra il suo vero profilo, sdoppiato in una contrapposizione manichea tra Estetica ed Etica dove è chiaro che, se messe in competizione tra loro, la seconda debba avere il sopravvento sulla prima, che dal confronto esce screditata e svilita. Ma, come sempre accade in una contesa ideologica, ogni vittoria è solo una sconfitta della verità e Grimaldi, come Faust, può realizzare del bene a patto di usare quell’arte mefistofelica che guarda con sospetto. Perché quest’opera lacerante e rivelatrice non riconosce false dicotomie, ma solo l’ambiguità di un Homo Videns certamente capace di sentimenti tali da salvare addirittura delle vite umane, ma anche costretto a pervertire il suo oggetto d’amore a quella finzione mercificante che si è imposta come tramite di salvezza obbligato, finendo per corromperlo a valore di scambio pur di salvarlo. Ma anche salvandolo pur di corromperlo, perché un rovescio simbolico dell’operazione non solo è reale e legittimo, ma ne costituisce addirittura la premessa al pari delle dichiarazioni d’intenti solo edificanti e positive, cioè ideologiche. Naturalmente, ciò è vero a condizione di essere disposti a leggerla per quello che effettivamente è, e non per quello che si vorrebbe fosse. Nel qual caso, essa risulterebbe tanto più efficace e riuscita perché illuminante di un lato oscuro che non è più solo di Grimaldi, ma del mondo capitalistico nel suo complesso, al quale l’artista, sia pur in modo conflittuale, non può che appartenere e contribuire. Se poi l’ambiguità disvelata è strutturale a una Società dello Spettacolo, allora ambasciator non porta pena, tranne quella di essersi sacrificato affinché tutti ne prendessimo coscienza. Tale sacrificio, però, ci riscatta unicamente sul piano della consapevolezza, perché ci è concesso di cancellare un “peccato originale” — cioè trascendente il singolo individuo e che, ancora una volta, non è altro che l’intrinseca ambiguità della natura umana — solo attraverso un dispositivo ideologico anch’esso trascendentale, quale per esempio il Battesimo dei cristiani. E questo è esattamente il mandato delle esegesi purificanti, ma anche falsanti, che hanno dovuto accompagnare fin dal concepimento un’opera al contrario sincera, ovvero colpevole di essere stata creata a immagine e somiglianza della società che l’ha generata. Esse redimono solo chi ci crede.