Barbara Casavecchia: In un tuo lavoro recente hai scritto “Hollywood” su un prato al confine del Brennero. Per trovare l’America bisogna andarsene dal “Bel Paese”, come hai fatto tu?
Maurizio Cattelan: Non sono a mio agio con l’idea — o il genere — del “tipico uomo globale” di Hanru. Non mi riconosco nel suo viaggiatore generico. Non ho alcuna voglia, sempre per usare le parole di Hanru, di “essere globale”, qualunque cosa voglia dire. La sua idea, che le cose iniziano a diventare interessanti solo nel punto in cui locale e globale si incontrano, per me rispecchia la retorica vuota degli slogan stile MTV, roba del tipo “Think global. Act local”.
BC: È più facile sentirsi in clandestinità o mantenere le distanze stando all’estero?
MC: Credo che il nomadismo oggi sia molto importante: non solo continua a ricordarti come ci si sente da outsider, ma ti aiuta anche a tornare a casa e vedere il posto in cui vivi con occhi diversi, ri-aperti. Io viaggio per le mie ricerche, non perché me lo posso permettere o perché devo lavorare da un’altra parte; non è per nessuna di queste ragioni. Viaggio perché ne ho bisogno, perché credo che sia molto importante. Probabilmente i miei valori personali sono più o meno altrettanto piccolo-borghesi e provinciali di quando sono arrivato a New York su un autobus Greyhound un bel po’ di anni fa. E probabilmente sotto sotto è per questo che sono sempre più convinto che l’universalità dell’arte è ciò che la rende più che mai essenziale per la civiltà.
BC: Usi la parola “outsider”, ma rispetto a cosa? La Top 100 italiana pubblicata nello scorso numero di Flash Art ti vede al primo posto, Cream della Phaidon Press ti censisce tra i cento artisti che entreranno nel prossimo millennio. Di fatto, sei una star dell’arte contemporanea.
MC: Cream mi sembra piuttosto un annuario di tendenze, di problemi. Ironicamente, credo che la sua presenza come libro può renderlo davvero efficace nel fare arrivare l’arte più nuova a un pubblico più vasto. Quello che mi piacerebbe molto vedere in giro è una specie di bigino o supplemento che insegni alla gente comune di tutto il mondo come scoprire artisti interessanti a due metri da casa.
BC: Dici che Picasso è “il più grande mago e entertainer della pratica artistica del XX secolo”; un paio d’anni fa Jeff Rian ha usato esattamente le stesse due parole per descrivere te. Di chi stai facendo la parodia con quel mascherone di cartapesta, che se ne va in giro a chiedere la carità?
MC: Be’, credo che Warhol abbia davvero esaurito ogni possibilità in materia. È difficile, come artista, ammettere di aver voglia di celebrità. Essere artisti non c’entra con la fama, ma con l’arte, quella cosa intangibile che ha bisogno di integrità. Penso però che sia necessario confessare di voler diventare famosi, altrimenti non si può essere artisti. Arte e fama sono l’espressione di un desiderio di vivere per sempre, due cose molto legate.
BC: La dimensione teatrale, con questo lavoro, sembra ancora più marcata. Perché è così importante la messa in scena, o il coup de théâtre?
MC: L’arte contemporanea non avrà mai il pubblico del calcio, della musica pop o della televisione, quindi penso che dovremmo smetterla di confrontare la sua possibile area d’influenza con quella degli eventi massmediatici. La costruzione di un museo come il Guggenheim di Bilbao e certe mostre internazionali giocano all’interno della logica dello spettacolo e così riescono ad attirare un sacco di persone, come se fossero delle Disneyland artistiche. Oggi il sensazionalismo ha preso il posto della comprensione della realtà da parte del critico e le leggi di mercato sono più forti di ogni sforzo di combattere il pensiero unico. Viviamo nell’impero del marketing, dello spettacolo e della seduzione, così uno dei ruoli di artisti e critici è quello di decostruire queste strategie, resistere alla loro logica, usarle e/o trovare nuovi metodi di attivismo contro di loro.
BC: Strategie, come il titolo di un tuo vecchio lavoro. Ma quali?
MC: A me non interessa particolarmente rivelare la strategia dei media, come ad altri della mia generazione. In questo senso, sono decisamente figlio della cultura di massa degli anni Ottanta. Allora il produttore giapponese Yasushi Akimoto si era inventato un programma TV, Onyanko Club, che svelava come si potesse trasformare una ragazzina qualunque in una star — era il pezzo forte dello show. Al pubblico si dava l’illusione che ci fossero dei veri produttori presenti all’audizione e, pur sapendo che l’intera faccenda era costruita, tutti si godevano la sceneggiata. Io stesso non riesco davvero a capire una cosa a fondo prima di averne sperimentato l’intero processo.
BC: A Rivoli nel ’97 hai installato carrelli con cui fare shopping di arte; ad Aperto della Biennale del ’93 hai affittato il tuo spazio a un’agenzia di pubblicità. Adesso però la Absolut ti usa come testimonial per la sua vodka. Si sono invertiti i fattori?
MC: A questa domanda è difficile rispondere. Lo humour è qualcosa a cui poche persone pensano nello sforzo estremo di creare una struttura di potere, che di solito è una cosa del tutto priva di senso dell’umorismo. Nessuno mi ha mai spiegato perché gente come David Bowie o Kirk Douglas e persino la regina d’Olanda vogliano disperatamente diventare artisti contemporanei, quando potrebbero tranquillamente risparmiarselo e godersi il piccolo successo che probabilmente hanno già. Sono sicuro che presto ci ritroveremo con una mini retrospettiva di acquerelli della principessa Diana. Tutto il mondo vuole diventare artista, nella vecchia accezione del termine, e nel frattempo noi continuiamo a discutere su cos’è un artista emergente.
BC: Dai tuoi lavori sembrano sparire i riferimenti all’attualità, se non a quella dell’arte. Se è vero, perché?
MC: Tutti sanno che gli artisti non cambiano la società, ma anche questa è una semplificazione. Gli artisti fanno parte del processo dell’informazione. Se gli artisti fanno solo cubi, allora tutto quello che il mondo saprà dell’arte sono i cubi. Ma se ci sono artisti che affrontano soggetti diversi, questi incominciano a entrare in dialoghi differenziali che riguardano la natura e le circostanze dell’arte. Forse questo non cambia il mondo, ma almeno il contesto in cui si fa un’esperienza in modi inaspettati. Se Jacques-Louis David non fosse esistito, la nostra nozione di ciò che era possibile in quell’epoca storica sarebbe molto diversa. La storia visiva è importante nel fornire una registrazione di quello che sta succedendo — livelli di intenzione, livelli di fiducia, livelli di aggressione o controllo. La scelta di nuovi soggetti incomincia a infrangere alcune barriere di quella enclave protetta, il mondo dell’arte, per come la conosciamo.
BC: Nel tuo autoritratto più famoso sei a terra, lingua a penzoloni, zampe raccolte. Nei tuoi lavori ci sono orsetti, cavalli, cagnolini, scoiattoli, piccioni: tutti domestici e più o meno tassidermizzati. Perché insistere sulla dimensione animale, spesso macabra?
MC: L’idea sarebbe quella di parlare della più alta forma di arte umana e questa — be’, è una mia personale opinione — è la tragedia. Perché noi siamo forse le uniche creature intimamente consapevoli del fatto che dovranno morire, anche quando la morte non è imminente. Sappiamo che la morte è una cosa che fa paura. Altre creature ne hanno paura solo quando è presente, quando un’enorme bocca spalancata sta per mangiarsele, noi umani invece ce ne stiamo seduti tutti tranquilli e all’improvviso te ne esci con un “oh, merda, devo morire”. Trovi la tragedia in ogni secolo: nell’opera, nel teatro, a volte nella musica. Ma nel XX secolo all’apice dell’apprezzamento della tragedia, della perdita, c’è il blues. I’m going to get up this morning, and I’m going to put my shoes on. L’idea di mettersi le scarpe la mattina è la cosa più difficile del mondo.
BC: Il vecchio adagio per cui il tragico è l’altra faccia del comico?
MC: Credo che mi interessi soprattutto l’elemento tragicomico: c’è dello humour e c’è umiltà. Mi interessa ogni tipo di emozione che possa entrare nel mio lavoro. Alcuni dei miei pezzi sono molto deprimenti. Quando la gente accetta di farli, sa che lo scenario è ridicolo, ma pare divertirsi lo stesso. Umilio anche me stesso: l’unica persona che può davvero risultare ridicola, alla fine della giornata, sono io.
BC: Quindi l’ironia feroce di certi tuoi lavori — presto andrai a presentare proprio a Londra l’elenco di sconfitte della Nazionale inglese di calcio — non se la prende solo col prossimo e le sue debolezze. Ci saresti anche tu tra le vittime del fallimento?
MC: Porto dentro di me l’idea che è meglio essere più cose che una, che molti dèi sono meglio di uno, che molte verità sono meglio di una sola.
BC: Cosa prepari per la tua ennesima Biennale di Venezia?
MC: Non puoi spuntare con un’idea preconfezionata, prima devi discutere con il Direttore e i curatori su che cosa vorrebbero vedere, quello che sanno già, quello che non sanno. Ho sempre fatto così.
BC: “Tutte le interviste sono preconfezionate”, hai detto più volte. Allora, a che gioco giochiamo?
MC: Stiamo solo giocando: tu potresti essere nella doccia, oppure sfilarti i pantaloni e giocare a choo choo train.
BC: Altre domande?
MC: Sei una fan di Joan Crawford?