La Whitney Biennial del 2012 è un manifesto abbastanza incompleto. Immagina nuovamente cosa sia una biennale ed esplora i modi in cui gli artisti si occupano delle cose che hanno tra le mani, rivedendo le loro priorità e combattendo contro un mondo dell’arte che si era focalizzato sulle vendite, la fuffa e la grandiosità. Siamo ancora tutti sotto shock dalla maniera in cui la conversazione estetica è stata fatta fuori; in sintesi questa mostra cerca di andare oltre. È incentrata su artisti che indagano l’ironia e il cinismo senza concedere nulla al sentimentalismo, la semplificazione o alla regressione.
Quasi ogni cosa qui esposta proviene dall’esperienza più intima dello studio d’artista piuttosto che dagli assistenti o da lavori in appalto dati alla Cina. Gli aspetti migliori di questa Biennale coinvolgono artisti con un notevole ventaglio di possibilità, che lavorano come curatori, storici, antropologi, archivisti, attivisti. Consente la fioritura di molti ibridi senza sposare nessuna linea teorica draconiana. Una passeggiata attraverso la manifestazione rivela un bosco di segnali interessanti. E questi stessi segnali mi fanno sperare che i curatori abbiano addirittura la vista lunga. L’arte che hanno scelto è volutamente sottovalutata, modesta e provvisoria in modo lo spettacolo risulti affettato, gentili e schivo. E come la Triennale del New Museum “Ungovernables”, nel nostro caso viene messo in mostra un po’ del tic curatoriale di un gruppetto di artisti insulari da parrocchia senza colpi in canna. Inoltre è deprimente osservare che, dopo la Biennale del 2010 al femminile, questa ritorna al tipico 30% circa di presenze di donne. Comunque anche se non è una mostra perfetta sotto molti punti di vista, l’ho lasciata con un senso di speranza. La Babilonia dell’arte è alle nostre spalle.
La Biennale è stata organizzata dal curatore indipendente Jay Sanders e da Elisabeth Sussman del Whitney. Per chi è troppo giovane da ricordarlo, la Sussman ha curato l’edizione del 1993, la più vituperata in assoluto. All’epoca venne definita “truce”, “fragile” e “pia”. Infatti si rivelò essere la più preveggente delle ultime due decadi, introducendo nuovi generi di agenzie artistiche e portando alla ribalta artisti emergenti come Matthew Barney, Glenn Ligon, Janine Antoni, Charles Ray, Robert Gober, Charles Atlas, Mike Kelley e Andrea Fraser. Diverse nozioni di forma integrata con l’arte concettuale e materiali inusuali per il mondo reale sono ancora in pista. E in più le ultime quattro persone dell’elenco sopracitato quest’anno sono nuovamente presenti.
Questa è una mostra sottile, sommessa, e se non la si visita a lungo, soprattutto per quanto riguarda i video e i film, si rischia di andare via senza avere capito bene che cosa si sia visto. (La Sanders ha dichiarato in proposito che il loro visitatore ideale dovrebbe tornare sette o otto volte.) Non è per taglie forti: c’è qualche stella che fa capolino, ma non ci sono gigantesche sculture o artisti che aspettano nell’atrio per guardarvi. La maggior parte dei lavori è piacevolmente installata qua e là, mentre il quarto piano, abbastanza grande, è quasi interamente dedicato alle performance. La vista di questo emozionante edificio dai tetti alti e l’aspetto modernista è una metafora dell’intera Biennale: artisti che strisciano indietro verso la storia e la forma senza essere scippatori smart né commentatori super colti. È un vivaio. La maggior parte dei lavori migliori sembra essere stata realizzata con oggetti raccattati un po’ ovunque, leggermente alterati, poi riorganizzati da extraterrestri o da castori che costruiscono la loro tana, e che basano il loro lavoro sulla fede cieca. Vi spiego: le sculture ricoperte di avena di Michael E. Smith e gli utensili primitivi della dimensione di una nocciolina di Matt Hoyt sembrano essere stati realizzati e “arrangiati” da uccellini; la camera rossastra dell’eccellente nuovo arrivato Tom Thayer, affollata di burattini e gru dipinti, fa di lui un moderno mitografo sulla scia di William Kentridge o del teatro delle ombre balinesi. Le orribili slide del film di Luther Price che ha manipolato, trovato, seppellito e dissotterrato sembrano prendere forma per caso e in modo decadente. Le sagome geometriche colorate di Vincent Fecteau somigliano a forme di vita provenienti da un altro pianeta presieduto da John Chamberlain. Nel suo favoloso video, Joanna Malinowska mescola e fa proprio un potente e psicadelico Sud America e mostra la sua visione di Joseph Beuys. Tutti questi artisti trasudano una sorta di magia che si potrebbe trovare nelle capanne sciamaniche ai confini dei villaggi. Forse ci sono uno o due veri sciamani qui in residenza: Georgia Sagri, che marcia intorno alla sua installazione come se fosse una reincarnazione Dada vestita da fantasma con t-shirt nude look, e Dawn Kasper. Entrambi realizzano arte in loco per la durata della mostra. Il nido caotico di Kasper al terzo piano è ricco di un’energia strana che mi ha fatto intravedere il possente spirito del defunto scultore anarchico Jason Rhoades.
Diversi artisti puntano a livelli più alti per necessità interiore e per follia. Mentre i curatori parlavano con Robert Gober della mostra, quest’ultimo — che la scorsa stagione ha curato la splendida personale di Charles Burchfield al Whitney — faceva notare che stava lavorando a un progetto su Forrest Bess, un pittore visionario americano poco conosciuto di metà Novecento. I curatori gli avevano concesso una stanza dove allestire una mostra nella mostra in cui si vedevano dieci piccoli lavori di Bess, tele astratte con colori molto vivi e con simboli che rimandavano, fra l’altro, al periodo in cui l’artista si era procurato un buco sul suo pene alla ricerca di una sorta di completezza alchemica ermafrodita. Sarah Michelson fa scorta di movimento e musica sulla scia di Pina Bausch, Merce Cunningham e Philip Glass nella sua ambiziosa performance/danza/teatro del mistero al quarto piano. Non sono riuscito a distrarre lo sguardo dai 169 minuti del film storico su Los Angeles nel cinema di Thom Anderson, una versione west coast del capolavoro di Christian Marclay, The Clock. (E, i curatori: “Dov’è The Clock? È un lavoro risalente a due anni fa, e non dovrebbe stare qui.)
E per finire, c’è l’affascinante proiezione multischermo dei paesaggi del pressoché sconosciuto artista del XVI secolo Hercules Segers su un’aria di Handel. Nel catalogo Herzog sottolinea che queste immagini stile Van Gogh sono “finestre aperte per noi…come se degli alieni si fossero presentati agli umani in una strana apparizione”. E questo è quanto suscita qui la migliore arte.
L’arte dovrebbe essere un processo che implica cambiamento, perdita di pelle morta, riorganizzazione di alcune sue strutture, un modo per uscire in maniera indolore dal periodo sovrariscaldato che abbiamo attraversato. Questo seducente e imperfetto manifesto di una mostra dà solo una sbirciatina all’intero processo.