I quadri di Philip Taaffe e di Christopher Wool presentati nella galleria Casamadre ereditano la superficie dell’astrattismo, ovvero la tela come unico e supremo spazio d’azione, e ne evidenziano la funzione postmoderna di schermo che svela ma che, per l’appunto, scherma. Entrambi americani, entrambi classe 1955, i due artisti operano tuttavia in due direzioni opposte e complementari.
Se Taaffe guarda molto lontano, verso Oriente, con segni dai riferimenti culturali intrecciati che si giustappongono e inseguono sulla tela, l’universo di Wool si forma nell’underground urbano, in quel groviglio di tracce che si arrampicano dalle strade ai muri, e che tra cancellature, errori, sovrapposizioni, sbavature e ridondanze ricordano il procedere caotico dei graffiti. Ma se “il quadro è un territorio da marcare, a cui appartenere per sempre, uno spazio circoscritto che va esplorato in ogni angolo,”, il pittore postmoderno lavora i segni con ostinazione in un orizzonte che, piccolo o grande che sia, rappresenta tutto il possibile. Così, Taaffe dipinge un flusso di immagini provenienti da mondi lontani, di cui percepiamo solo frammenti, alfabeti interrotti o rimescolati per lessici e grammatiche diverse. All’inverso, il quadro di Wool ingloba per sottrazione: tutto ciò che dall’esterno viene catturato nella cornice è sottoposto a un processo di ritaglio, di scarnificazione, di pulitura e poi di rimontaggio seriale. Dagli elementi geometrici o floreali, alle lettere, alle linee, alle macchie d’inchiostro, non c’è nulla che non possa e che non debba essere riprodotto. E se l’astrazione produce senso per successive formalizzazioni, compito del pittore astratto è quello di trovare un equilibrio non statico tra linguaggio e materia, pensiero e azione, forma e desiderio. Da una parte, quindi, abbiamo la ricchezza polisemica degli scenari esotici di Taaffe; dall’altra, la proliferazione violenta di parole e di figure ripetitive, i segni intrisi di vita vissuta proposti da Wool. È proprio con quest’ultimo che l’astrattismo imbocca la sua “desolation row”, una strada desolata fatta di continue ripetizioni come quella dell’omonina canzone di Bob Dylan.
by Fuani Marino