Ulay IO INTERIORE, IO ESTERIORE

21 Marzo 2016

Nella carriera di un intelletto che abbia liquidato un pregiudizio dopo l’altro, sopraggiunge un momento in cui gli è parimenti facile diventare un santo o un gran mascalzone, scriveva Emil Cioran nel 1969, aggiungendo la sorte di chi si è ribellato troppo è di non aver più energie se non per la delusione. Ma per Ulay (pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, 1943, Solingen) nessuna delle due affermazioni può risultare completamente vera o completamente falsa. E dopo la recente esposizione dei suoi primi lavori Disidentification and Transformation inaugurata durante la Biennale di Istanbul, presso lo Şekerbank Açıkekran New Media Arts, l’uomo, il corpo, la voce dell’artista torna a farsi ascoltare. Il 5 aprile Ulay, dopo trentanove anni da Balance proof (1977) -performance avvenuta al Musée d’art et d’histoire (MAH) di Ginevra, assieme a Marina Abramović- nella medesima sala metterà in scena Invisible Opponent. Per la celebrazione dei 20 anni di Art For The World, la curatrice Adelina von Fürstenberg ha invitato l’artista non solo a mettere in scena una nuova simmetria orizzontale, una nuova misurazione di sé stesso, ma anche a ri-presentare Performing Life (documentario sulla sua malattia, già proiettato al Centre Pompidou, allo Stedelijk Museum e alla Neue Galerie, a Berlino) e a ufficializzare la piattaforma di sensibilizzazione del World Water joy project (www.earthwatercatalogue.net/).

Ginevra Bria: Alcuni anni fa hai affermato che non si impara l’arte a scuola, si può imparare molto sull’arte ma fare arte e farsi carico di tutte le responsabilità che questa scelta comporta è diverso. Chi o che cosa è stato il tuo vero, primo Meister?

Ulay: Nel 1969-1970 mi sono iscritto alla facoltà di pittura e grafica all’Accademia d’Arte di Colonia, sono rimasto studente per circa un anno e mezzo. Volevo imitare un amico artista, Jürgen Klauke, volevo scoprire il mondo attraverso l’arte, anche se, però, ricercavo, sopra ogni cosa, l’immediatezza. E allora non esistevano neppure i dipartimenti dedicati alla fotografia. In accademia rimasi comunque molto influenzato dal professor Will, un insegnate di pittura, e da altri suoi colleghi di discipline grafiche, senza mai studiare fotografia. Poi, dopo un anno e mezzo, Will mi chiese di raggiungerlo nel suo studio e disse: sai Ulay, credo che dovresti lasciare l’accademia prima che questa forzi il tuo carattere e le tue capacità. Io subito mi chiesi: significa che non sono un bravo allievo o non sono in grado di diventare un buon artista? Poi lui, probabilmente intuendo, ha aggiunto: non sto disquisendo sul fatto che tu abbia talento o meno, sto solo dicendo che hai troppa esperienza in fotografia per rimanere nei dipartimenti di grafica e di pittura. Nonostante amassi quell’ambiente ho dovuto prendere il suo consiglio e andarmene, perseguendo una direzione diversa. E’ il professor Will che considero il vero Meister, proprio lui che mi ha allontanato dall’accademia.

GB: Potresti cortesemente descrivere quella che tu consideri la tua prima vera performance e come venne accolta?

U: Ho iniziato a produrre performance agli albori degli anni Settanta. I primi lavori, inseriti all’interno di un discorso distintivo sulle identità delle apparenze, sul gender-crossing, avevano sempre come audience la Polaroid. Si trattava di primigenie performance intime che non richiedevano pubblico. Poi ho cominciato a sviluppare performance dal vivo, su un palco, assieme al Willem Breuker Jazz Collective, una band composta da dodici musicisti. Suonavano avanguardia. Ho iniziato con loro a mettere in scena alcune performance, mentre la band suonava, producendo lavori in sé molto individualisti, sebbene già allora immersi nel regno del gender-crossing. Soltanto più tardi, entrai in scena con due soli componenti del collettivo, un duo: rispettivamente il sassofono (Willem Breuker) e il piano. Nella nostra prima vera performance, Red Venus, io letteralmente emersi dal palco, a Vlissingen, Middelburg, nascosto da una sorta di pira, sovrastato da una grande piramide di cavoli rossi. Alcuni di quei ceppi erano stati da me intagliati, riempiti di bambole rosse e richiusi nelle quinte. Ad un certo punto del concerto, io uscii dall’interno di quella piramide, come Venere dalla sua conchiglia, indossando una maschera fotografica di donna dai capelli bianchi, seni di plastica, una tutina aderente dai colori fluorescenti e rilasciando, infine, le bambole rosse sul pubblico, con movenze a tempo di jazz. Ecco questa fu la mia performance, era un Capodanno, tra il 1973 e il 1974.

GB: Negli anni Settanta, il tuo modo di mettere in atto una performance era un moto interrogatorio oppure un sovrapporsi di identità collettive e individuali?

U: Pensare ad una performance significava attivare esattamente entrambe le dimensioni, nel mio essere e nel mio pubblico. Essendo un artista autonomo e non-educato dovevo comunque giocare, sedurre con l’idea di intervenire sul mio stato di individuo di fronte all’obiettivo fotografico. La prima intima performance fotografica avvenne senza pubblico, ma divenne una sorta di scintilla per l’avvenire. Tra il 1970 e il 1975, infatti, non avevo molte informazioni riguardo a quel tipo di zeitgeist, che stavamo compiendo, ognuno separatamente. O meglio, le performance, così come erano state definite dalla cultura anglosassone, dal teatro di Shakespeare, o ancora prima nell’antica Grecia, per me non erano attribuzione diretta di quel che stavo compiendo, dato che la mia lingua madre era di matrice germanica. La parola performance, per me, ha cominciato a sussistere, ad avere un senso quando ho conosciuto Vito Acconci con Body as space, nel 1970. Ma prima di allora non avevo idea di cosa io stessi compiendo di fronte all’obiettivo.

Ulay, Auto-Polaroid, 1973
Ulay, Auto-Polaroid, 1973

 

GB: Quanto e in che modo la fotografia ha inciso, modificato, plasmato il tuo schema mentale performativo?

U: All’inizio, modificare il mio aspetto di fronte alla Polaroid investigava l’urgenza dell’identità. Poi, quando il pubblico ha cominciato ad assistere alle performance, come durante Fototot 1, alla De Appel Foundation di Amsterdam nel 1976, la fotografia ha preso ad uscire da me, per circondare pareti e persone. Talvolta per disorientarle. Poi, a seguire, fino alla fine degli anni Ottanta, l’obiettivo ha cominciato a diventare un registro, una traccia documentale, oggettiva al quale io ero semplicemente addetto, e non un elemento inquisitorio, d’indagine così come lo avevo percepito in principio.

GB: Nella tua modalità di dialogo, tra la rappresentazione del Sé e lo spazio, quanto è diventato rilevante, imprescindibile seguire un asse di simmetria -tematico oppure estetico?

U: Parlare di un Io interiore è sempre entrare in un terreno difficoltoso. Nei primi anni Settanta, fino al 1976, le mie performance vennero etichettate come sovversive, in quanto spazi cosiddetti white cube, o luoghi istituzionali, non avrebbero mai acconsentito ad invitarmi a presentare un intervento. Si doveva trovare spazi alternativi, che allora era complesso occupare per motivi artistici. Inoltre abbiamo dovuto inventarci un modo per mobilitare pigri critici d’arte, direttori di musei, di gallerie e storici in quei luoghi; abbiamo dovuto catturare la loro attenzione e renderli partecipi dell’effimero, di quegli interventi nello spazio. Darsi, dunque, una linea da attraversare ed entro la quale rientrare è stato per me fondamentale, per rappresentare quel che stavamo oltrepassando. Poi, però, ritengo non esista, assolutamente, alcuna simmetria tra uomo e donna, nemmeno all’interno della mia parte maschile e di quella femminile. Infatti nelle collaborative performance, in cui si indagano le origini di genere e le differenze, non si riscontra alcuna simmetria, ma piuttosto un’asimmetria raggiunta in armonia per arrivare alla stessa azione, al medesimo risultato. Non sono un’amate della simmetria in sé, è un’operazione visiva troppo fascista e comunista assieme, dittatoriale.

GB: Una volta ti sei sottoposto ad un trapianto di un tatuaggio, che cosa riguardava?

U: Ho sempre cercato di entrare nella superficie di quel che la fotografia riproduceva. Attraverso l’impressione dell’immagine, volevo arrivare a scavare la mia identità, per la quale non trovavo mai abbastanza risposte. I miei genitori erano morti, rispettivamente, quando avevo quattordici e quindici anni e da allora sono orfano, senza nemmeno parenti. Vivevo con l’idea dell’identità come di fronte ad un trompe-l’œil. E negli anni Settanta trovai un tattoo artist ad Amsterdam, Tattoo Pieter, dal quale mi feci tatuare, sul braccio sinistro generation ultima ratio. Una frase dell’anarchista ottocentesco francese Émile Henry. Io trasformai però la frase in gen.e.t.ration ultima ratio, rievocando anche la genetica. Poi, appena il tatuaggio si fu rimarginato, qualche mese dopo, andai da un noto chirurgo plastico di Amsterdam, uno dei primi e che per la prima volta eseguiva questa operazione. Posizionai una Polaroid al di sopra della spalla sinistra, mi feci anestetizzare il braccio e mentre il dottore eseguiva l’operazione, un’assistente riprendeva i diversi passaggi dell’asportazione della pelle. Resto ancora oggi troppo anarchico, anche solo per esser definito o marchiato come tale.

 

Ulay, Tattoo 1, 1972
Ulay, Tattoo 1, 1972

 

GB: Come il tempo ha modificato la relazione tra il to sé interiore e il tuo corpo, la tua carne –non la tua immagine-?

U: Non credo si possa separare l’io interiore dal corpo, ma questo è un dilemma. Forse, sono diventato più saggio, ma non meno radicale o non-ortodosso. Ho solo raggiunto una sorta di pace con me stesso e con tutto quel che ho fatto. Mentre il mio io interiore riesce ancora a farsi carico e a portarsi dietro il mio io esteriore.

GB: Fisicamente e psichicamente quali tipologie di fondamenti sono necessari, oggi, nella contemporaneità, per preparare una performance?

U: I fondamenti sono gli stessi di quasi cinquant’anni fa. Oggi si ri-mettono in scena, piattamente, performance che erano state rese effimere e allo stesso tempo significative allora, negli anni Settanta e Ottanta. Ma il re-enactment è totalmente fuori dal tempo. I motivi e le modalità secondo le quali ci muovevamo erano conseguenza diretta di un preciso periodo social-geo-politico che oggi è passato. E non sarai mai più uguale, dunque perché riproporlo? Sono sempre stato un artista impegnato, non ho mai potuto ignorare quel che succedeva attorno a me. Ci sono troppe urgenze umanitarie, troppe ingiustizie sociali, oggi, e sono queste sulle quali suggerirei ai giovani artisti di denunciare, di concentrarsi, per le quali diventare sensibili, attraverso il loro corpo finito, il corpo della contemporaneità. Ben sapendo che ogni performance è Non-finito per elezione.

GB: Oggi, in che modo un corpo può esprimere autenticità, come emergere dalla norma, nell’era della società diffusa e digitalizzata? Esiste un giovane performer che recentemente ti ha colpito?

U: Il corpo è il medium per eccellenza. E non potrebbe essere più autentico delle impronte digitali di cui ognuno si fa portatore. Inoltre non considero affatto i social media piattaforme social. Il mio tempo è troppo prezioso per essere sprecato nel carico di espressioni, di impressioni ai quali tutti vogliono appartenere, al quale tutti vogliono accedere per non provare il dolore di far fronte alla propria individualità. Inoltre, c’è un grande performer che apprezzo moltissimo: Tino Sehgal. Lui ha mosso un importante passo oltre le cosiddette consequences of automation per ampliare e mettere sotto pressione quelli che sono o dovrebbero essere i termini della performatività contemporanea, nonché la sua reale natura. Lui non registra mai le sue performance e non partecipa mai direttamente, delegando sempre agli altri le proprie idee. Inoltre non compila mai contratti con le istituzioni nelle quali lui ha intenzione di proporre i suoi lavori, ma conclude ogni accordo relativo alla messa in scena delle performance con una semplice stretta di mano. E niente potrebbe essere più puro e più bello di questo gesto.

GB: In che modo il cancro che hai sconfitto ha inficiato la tua ricerca totale di un controllo del corpo e come ha ampliato il tuo pensiero, il tuo sentire?

U: Quando l’oncologa ha pronunciato il lungo nome della neoplasia di cui ero affetto non avevo mai sentito nulla di più astratto in vita mia. Eppure è stato il primo termine della malattia con il quale ho dovuto confrontarmi ed entrare in rapporto. Mi avevano dato dai quattro ai sei mesi di vita. La prima reazione è stata: voglio andare a vivere da solo in una caverna sull’Himalaya e meditare su come far uscire questo male da me. Poi ho cominciato a cercare cure alternative, ma per salvarmi ho dovuto accettare, prima di tutto, la chemioterapia. Il cancro e la chemio sono comunque stigmate, attraverso le quali si entra in relazione con un altro mondo. Durante la terapia ho provato moltissime cure per disintossicarmi, viaggiando dall’India allo Sri Lanka, e meditando secondo la disciplina buddista. Comunque anche se credo che il cancro mi abbia fatto diventare più gentile, più saggio ancora fumo come una ciminiera e bevo come un pesce.

Ulay, auto-Polaroid 6, 1973
Ulay, auto-Polaroid 6, 1973

 

GB: Potresti cortesemente anticipare i tuoi prossimi impegni?

U: Sto preparando una mostra monografica da MOTinternational a Londra. Inoltre a gennaio ho in programma una mostra di sole Polaroid al National Museum of Photography di Rotterdam, un percorso che ripercorrerà il mio lavoro dal 1975 al 2015 e che nel catalogo includerà un mio testo di ricerca scientifica sul restauro e la conservazione del colore delle istantanee. All’interno mostrerò anche un documentario che ho girato su di esse. Dopo l’inaugurazione di questa mostra volerò a Los Angeles per fare una performance durante un simposio alla University of Southern California a cura di Amelia Jones. Dopo la performance a Ginevra, credo che riporterò alla ribalta il mio progetto di creare un Earth-water catalogue. Mentre per settembre-ottobre del 2016 è già fissata una mia massiccia retrospettiva alla Kunsthalle di Francoforte.

GB: Potresti, in ultimo, formulare un pensiero, un augurio sul tuo futuro e uno sul tuo passato?

U: Hai mai provato a rispondere alla semplice domanda chi sono io? ancora non so rispondere ma mi auguro d’essere sempre, comunque me stesso.

 

Ulay è nato nel 1943 a Solingen, Germania

Ginevra Bria è critica d’arte. Vive e lavora a Milano

 

Cerca altri articoli

Intervista