Scheletri medievali, una banda di ottoni, sacerdoti che stringono mazzi di gigli, pazienti in fin di vita nutriti da lunghe flebo, ritratti di propaganda, megafoni, mutilati di guerra, sono parte di un corteo di vinti che marcia, suona, balla in un arido paesaggio dalle reminiscenze sudafricane. È questa danse macabre disperata e allo stesso tempo beckettianamente gioiosa, dal titolo More Sweetly Play the Dance, ad aprire la mostra personale di William Kentridge Triumphs, Laments and Other Processions presso gli spazi di Lia Rumma in Via Stilicone.
Dispiegati in otto schermi circolari, i personaggi paiono intrappolati in un eterno esodo, riportando inevitabilmente all’immagine di profughi in cerca di asilo. In una sorta di solitudine condivisa le icone itineranti si muovono come monadi senza destinazione, sorreggendo silhouettes provenienti dal denso arsenale di schizzi dell’artista. Ancora una volta Kentridge legge la storia attuale intrecciandola a memorie personali e autobiografiche, creando così una narrazione alternativa che rifiuta qualsiasi tipo di istanza definitiva. Ad emergere inoltre è il carattere intermediale dell’artista che, come è noto, non ha mai ha limitato il proprio estro ad un unico mezzo espressivo. Nei piani superiori della galleria, infatti, si trovano i disegni a carboncino, le chine d’inchiostro indiano, le sculture anamorfiche, gli arazzi, le sagome d’acciaio dipinte di nero, scaturite durante la fase di preparazione e studio del suo ultimo progetto Triumphs & Laments, il fregio monumentale realizzato sui muraglioni del Lungotevere a Roma. Anche qui l’ordine viene abbandonato per fare posto a un sistema caotico di riferimenti che si incrociano, richiamandosi a vicenda: la morte di Remo, la Dolce Vita, l’assassinio di Pasolini, l’estasi di Santa Teresa. Cercando il senso della storia a partire dai suoi frammenti, Kentridge tratta i trionfi e sconfitte come concetti labili, mostrando come il successo di alcuni possa risultare una sciagura per altri.
by Giulia Gregnanin