Manifesta 11, l’ultima edizione della Biennale europea itinerante, si lega a Zurigo cercando di esplorare ciò che rende la città così efficiente: il lavoro. L’idea – alquanto superficiale – promossa dal curatore e artista Christian Jankowski è riproposta nel titolo della mostra “What We Do for Money” [“Cosa facciamo per soldi”], che sottolinea l’ovvietà per cui per sopravvivere economicamente occorre lavorare. L’esposizione feticizza l’idea che gli addetti al settore artistico possano interagire con i “lavoratori comuni”. In aggiunta alla grande mostra collettiva, infatti, trenta artisti sono stati accoppiati a diverse figure professionali nell’ottica di creare delle joint venture in grado di innescare nuovi stimoli, sia per collaborazione che per contrasto.
Georgia Sagri, associata a un banchiere della Julius Baer, ha restituito un doppio ritratto della figura di colui che ospita e di chi è ospitato, attraverso l’analisi del rapporto tra lei e il banchiere e tra lei e l’istituzione di Manifesta. Sagri ha rifiutato di essere filmata per scopi documentari a meno che non venisse stipendiata come attrice per recitare il ruolo di se stessa. Manifesta ha declinato la proposta, così l’artista ha negoziato lungamente il contratto, per assicurarsi di avere un controllo totale sul suo lavoro, sulla sua presentazione e sulla propria immagine. Gli incontri sono stati filmati, entrando a far parte del suo progetto, rivelando sia un interesse che una scrupolosa abilità nello sfidare sistemi istituzionali di potere e di linguaggio. Il rifiuto da parte di Manifesta di mostrare pubblicamente i filmati ha portato l’artista a contattare lo spazio progetto zurighese Up State, così da completare non ufficialmente il progetto e restituirlo al pubblico, minando il controllo che l’istituzione cittadina credeva di avere sull’artista come sull’essere umano. Il film che ne risulta è intelligente e rivelante, e mostra delle radicate strutture istituzionali di potere alquanto sessiste. Gli impiegati di Manifesta, con i loro volti confusi e le loro voci minacciose e sinistre, reagiscono malamente alla richiesta di Sagri di mantenere un’integrità artistica.
Continuando su questa linea, le collaborazioni di successo sono quelle che sono state capaci di andare oltre la semplice professione e a catturare la fugacità dell’elemento umano. L’opera The Zurich Load di Mike Bouchet però non fa parte di queste. Qui l’artista ha lavorato con un giardiniere esperto di scarti di piante, arrivando a creare solidi geometrici con le feci dei cittadini di Zurigo prodotte in una giornata. In una grande hall dal forte odore di ammoniaca, l’installazione rimanda in termini visuali alle opere di Walter De Maria, ma lo shock dal gusto vintage non risulta paricolarmente efficace.
Pablo Helguera invece presenta gli Artoons, ovvero fumetti in stile New Yorker disposti sulle pareti pubbliche del complesso del Löwenbräu. Sono battute che fanno leva sugli stereotipi del mondo dell’arte, alcune acute a altre più moralmente opinabili. Una vignetta raffigura un direttore di museo che introduce uno stagista non pagato come nuovo curatore, ma ciò che forse manca è la capacità di prendere una posizione in merito ai problemi sociali, limitandosi unicamente a identificarli.
L’opera di Leigh Ledare The Here and the Now (Zurich Groups 1:1) è una grande video installazione che mostra i frutti di una sessione di tre giorni con una terapista di gruppo, ovvero la figura lavorativa con cui è stato accoppiato. Il video è ipnotico e, allo stesso tempo, banale. Non dando incitamenti, il gruppo di ventidue persone siede per terra e inizia una chiacchierata, agitandosi goffamente. Ci sono lacrime, scuse e accuse sottili in un inglese dall’accento tedesco. È pura interazione umana, come un reality-show intellettuale senza alcuna manipolazione, ed è affascinante e rivelante in quanto riesce ad andare oltre il lato umano.
Come una maschera, i lavori che facciamo per denaro, nel bene e nel male, ci nascondono e ci aiutano. Il fallimento del tema di Manifesta risiede proprio nella sua connessione con la città di Zurigo. Qui ordine e responsabilità sociale non possono fare altro che sopraffare qualsiasi rapporto interpersonale.
Mitchell Anderson
(Traduzione dall’inglese di Giulia Gregnanin)