Di fronte a un vasto pubblico di addetti ai lavori, turisti, abitanti del luogo o semplici curiosi, lo scorso 20 giugno, nella notte del plenilunio del solstizio d’estate, Roberto Cuoghi (1973), su invito del magnate e collezionista greco-cipriota Dakis Joannou, inscena un vero e proprio “Putiferio” sull’isola di Hydra, nel vecchio mattatoio (la Slaughterhouse) riconvertito in project space dalla DESTE Foundation di Atene.
L’artista, di base a Milano, crea un lessico visivo che nella semplicità della sua fisionomia ma non della sua esecuzione (una miriade, circa 300, di granchi in ceramica dalle sembianze facilmente riconoscibili seppure in alcuni casi deformi, cotti in diretta durante una performance durata circa tre ore) si confronta con un particolare contesto naturale –e allo stesso tempo storico– in cui non solo l’essenza stessa dell’opera, ma anche l’ostentata fisicità della sua realizzazione, rimanda a un universo di segni e significati che trascendono la sua immediata comprensione, al di la della spettacolarità dell’evento performativo stesso.
Al desiderio dello spettatore di interrogarsi sulla natura dell’opera, pescando magari tra le proprie conoscenze sulla storia, l’arte e la mitologia, si sostituisce, infatti, lo stupore emotivo provocato dalla performance che lo libera, in un istante, da qualsiasi obbligo e remora intellettuale.
Le connotazioni simboliche, e cariche di mistero, delle sculture di Cuoghi, le pongono in una relazione speciale con il tempo e la storia, in un continuo andirivieni tra la corporeità dell’oggetto e della materia che lo costituisce e la ritualità mistica e scenografica della performance, una sorta di rito pagano in onore degli dei dell’antica Grecia.
L’artista esplora non solo le potenzialità della materia (lo sterco d’asino, il rame, la frutta marcia, il sale, il caffè e la segatura usati come combustibile, e le miscele di lievito fermentato, proteine, zucchero, mangimi, e polveri di ferro per raffreddare e colorare le sue sculture) ma anche la resistenza fisica del suo stesso corpo, in un confronto estenuante con le alte temperature (circa 1000°C) di due forni sperimentali –uno collassato sotto l’intensità delle sue stesse fiamme– progettati dall’artista e utilizzati per la prima volta in quella notte di luna piena.
Gli oggetti inermi di Cuoghi, persa la loro funzione naturale originale, si fanno pura simbologia le cui interpretazioni rimangono oscure, a tratti indecifrabili e per questo incompiute. Risposano oggi nelle stanze del vecchio mattatoio, testimoni, o reperti, di una moderna archeologia, che suggerisce leggende enigmatiche, riti e protagonisti pagani, ma anche, forse, circostanze storiche precise e attuali. Intrappolati in una narrazione in costante cambiamento, i granchi imbalsamati di Cuoghi sopravvivono in un rapporto dialogico tra la finzione e la realtà, lo spirito e la materia, l’ordine e il caos, la cultura classica e quella popolare; spetterà solo allo spettatore prendere la decisione finale.
Tommaso Speretta