Kienholz Fondazione Prada / Milano

12 Settembre 2016

Quando la Fondazione Prada acquisì l’installazione ambientale di Edward e Nancy Kienholz Five Car Stud (1969–72) all’edizione 2012 di Art | Basel, la notizia contribuì a non pochi riassestamenti degli equilibri interni al sistema dell’arte. Da una parte, un’istituzione privata legata all’industria della moda nettamente allungava la gittata dei propri scopi socioculturali; dall’altra, espressioni artistiche emerse nella seconda metà del Novecento e largamente occultate perché catalizzanti un’esplicita denuncia alle strutture della società occidentale emergevano a reclamare prepotentemente lo status di capolavoro. L’opera dei coniugi Kienholz è un’esempio paradigmatico di questa dinamica: esposta per la priva volta alla quinta edizione di Documenta, Five Car Stud rappresenta la feroce evirazione di un uomo afroamericano da parte di cinque uomini bianchi; l’uomo si ipotizza sia stato sorpreso in compagnia della donna bianca che, inerme, osserva l’accadimento dall’interno di uno dei cinque autoveicoli che delimitano e illuminano questo teatro della crudeltà. Five Car Stud è una ricostruzione in scala reale dell’ipotetica situazione. Ciò significa che lo spettatore è invitato a un vero e proprio “corpo a corpo” con una rappresentazione tra le più poderose mai formalizzate nell’ambito delle arti visive a commento del fenomeno dell’odio razziale. Re-installata nella sede milanese della Fondazione Prada, come il climax di un percorso espositivo che attraversa la torbida produzione dei Kienholz, Five Car Stud offre un’esperienza a dir poco conturbante. Se le lettere che galleggiano nella tanica che rimpiazza il busto dell’uomo afroamericano sono facilmente ricomponibili a formare la parola nigger, quelle suggeriscono infinite altre combinazioni per appellativi xenofobi. Infatti, sebbene Edward Kienholz definì Five Car Stud un coagulo del “peso di essere un americano”, è possibile astrarre l’opera e rintracciarvi la gratuità di ogni atto di violenza compiuto nella storia in nome di una supremazia della razza. Un monito ai programmi dei movimenti anti-immigrazione che minacciano le nostre democrazie.

 

Michele D’Aurizio

Cerca altri articoli

Recensioni