Avevo guardato l’elenco degli artisti, letto il comunicato stampa e buttato giù un paio di domande sul mio volo di andata. È un dato di fatto che la 32a Biennale di San Paolo rifletta le recenti turbolenze in atto in Brasile, nonostante ciò ero completamente impreparato all’Hotel Unique.Un curioso disegno a tema nautico, l’Unique ospitava un gruppo di noi, arrivati in città per la biennale. L’edificio era situato sul retro di una piazza privata che affaccia sulla affollata Avenida Brigadeiro Luís Antônio. La costruzione si presentava agli ospiti con una grande facciata semicircolare – tondeggiante al piano terra e piatta sulla parte superiore – con piastrelle blu-verdastro, tappezzata di oblò. Apparentemente ormeggiata su una struttura ripiegata in basso in acciaio e vetro, la nave era tenuta ulteriormente in sicurezza da una parete che si collegava alla punta della poppa e un’altra a prua, che insieme davano l’impressione di una sorta di ponteggio. Quella che avevo davanti non era una barca qualsiasi. Hotel Unique assomigliava a un’arca in attesa di piogge purificanti, il cui livello delle acque risucchiava al suo interno gli amanti del design.
Un velo di nuvole grigie copriva San Paolo e, attraverso il mio oblò, vedevo gruppi di persone passeggiare sul marciapiede dall’altro lato della piazza. Questa gente in attesa davanti all’arca sembrava quasi minacciosa e, per ora, era bloccata fuori dalle guardie armate.
Ho realizzato proprio allora di aver visto davvero tanti film di zombie, mentre intravedevo da lontano la successione di scandali e crisi avvenuti in Brasile negli ultimi mesi, come fossero scene di un’apocalisse tropicale: l’emergenza per la salute pubblica, la rimozione forzata delle comunità urbane indigenti, la stravaganza costosa e mal gestita delle Olimpiadi e, cosa più importante, lo sfarzo parlamentare del morbido colpo di Stato. Tutto questo, ovviamente, dispiegato sullo sfondo di un’economia celebrata, prima del recesso del 2014, come la storia di un successo neoliberista.
Se vogliamo vedere la biennale come un affare sommesso, può essere così solo in confronto allo spettacolo di calamità e reazione politica, non certo per mancanza di volontà. I curatori, infatti, hanno visto una catastrofe alla base del principio organizzativo dell’esposizione. “Al fine di affrontare oggettivamente le grandi questioni del nostro tempo”, lo statement della mostra precisa, “così come il riscaldamento globale e il suo impatto sui nostri habitat, l’estinzione delle specie e la perdita della diversità biologica e culturale, l’instabilità economica e politica, l’ingiustizia nella distribuzione delle risorse naturali della Terra e la migrazione globale, tra gli altri, forse sarebbe necessario distinguere l’incertezza dalla paura”.
Tuttavia il modo in cui questo distacco è suggerito sembra, più comunemente, il lavoro attraverso un insieme di stili, pratiche e temi arcaizzanti: artigianato, mito, povertà e sporcizia. Assistiamo alla profusione di materiali naturali. Le sculture di Frans Krajcberg aprono l’esposizione con un boschetto di totemici alberi amazzonici bruciati, tagliuzzati e dipinti (Gordinhos, Bailarinas e Coqueiros); indeed it may very well be the ____________ itself (2016) di Dineo Seshee Bopape è costituito invece da una serie di piattaforme di terreno compattato, i cui fori sono riempiti con “oggetti emotivi” – erbe, minerali, porzioni di argilla.
Lavori che impiegano materiali industriali sembrano spesso suggerire – sia attraverso il contesto o l’intenzione – antichità runiche: orti piantati in contenitori di cemento e pneumatici per autocarri (Carla Filipe, Migração, exclusão e resistência [Migrazione, esclusione e resistenza], 2016); e un paio di colonne imponenti – le più grandi opere in mostra – una costruita con paglia e tronchi accatastati, l’altra in mattoni, cemento e acciaio (Lais Mirra, Dois pesos, duas medidas [Doppio Standard], 2016).
Al piano terra, Bené Fonteles (Ágora: Oca Tapera Terreiro, 2016) presenta oggetti popolari, statuette e tessuti disposti attorno a un cerchio di sporcizia, ospitati sotto il tetto di paglia di una capanna di argilla. Non c’è da preoccuparsi se la capanna di Fonteles non fa per te; forse la capanna di fango e bambù di Pia Lindman (Nose Ears Eyes, 2016) al secondo piano sarà di maggior gradimento.
A dire il vero, c’è un lavoro che ricade al di fuori di questo mondo sognante fatto di artigianato, natura e ritorno primordiale – ad esempio, la video installazione di Hito Steyerl Hell Yeah Fuck We Die (2016) sulla tecnologia, la politica e la poetica robotica. Il film di Rosa Barba Disseminate and Hold (2016), finanziato dal Premio Internazionale d’Arte Contemporanea, esamina il Minhocão, una vasta strada di cemento sopraelevata che attraversa il centro di San Paolo, eretta nel bel mezzo della dittatura militare. Si tratta di uno studio molto sottile a livello sociale e politico dell’ambiente costruito.
Il tono generale che si percepisce è quello di evasione popolare e anti-razionalismo, nonostante le intenzioni particolari e concettuali degli artisti (vedi un paio di esempi che ho riportato di sopra). Opere come Cantos de trabalho (1974-1976) di Leon Hirszman, studi cinematografici molto belli e radicali sui lavoratori rurali brasiliani; oppure O Brasil dos índios: Um arquivo aberto [The Brazil of the Indians: An Open Archive 2016], una selezione di lavori di Vídeo nas Aldeias, un collettivo che, per tre decenni, ha formato cineasti brasiliani indigeni documentandone la vita quotidiana all’interno di queste comunità, mostrando gli individui in questione come fossero strappati da una loro condizione di specificità verso una nostalgia più generalizzata.
Forse un altro tipo di mostra – una politicamente più inequivocabile o con un numero minore di capanne di fango – avrebbe fatto la differenza di fronte alla presa di potere di Temer, anche se questo sarebbe dipeso dal modo in cui si misura l’efficacia o lo scopo di un arte politica, sollevando ancora più domande. Commettiamo un errore di interpretazione quando leggiamo una mostra internazionale in contrasto al contesto politico nazionale? A prescindere dalle simpatie politiche dei curatori (senza dubbio per il centro-sinistra), e della visione utopica di Oscar Niemeyer (nazionalismo culturale e comunismo politico), lo spazio del padiglione non dovrebbe appartenere ad alcuna globalità se non al mondo dell’arte? Non forse ovunque, nella capitale? Eppure i collezionisti brasiliani e quelli che si leggono sulle schede museali, vengono in gran parte dalla dirigenza della rinnovata classe politica della destra, tenuti a bada fino a ora da una contentezza generale dovuta all’impennata dei prezzi sulle materie prime. Tali dinamiche politiche localizzate erano certamente presenti nelle idee di Aparelhamento, un gruppo di artisti che producono azioni dirette e proteste contro il colpo di stato, e chiunque arrivi in massa durante l’anteprima della mostra indossando t-shirt nere con su uno slogan come Fora Temer [Fuori Temer] e Diretas Já [Elezioni dirette ora].
Così pure per l’incertezza che, ovviamente, è una realtà, e non può essere così facilmente separata dalla paura. Negli Stati Uniti – come forse avrete sentito – abbiamo il nostro mostro che attende da dietro le quinte (e un minore stadio di malessere a sinistra). Eppure nell’arte, l’incertezza incarna una preferenza di lunga data. Noi tutti desideriamo una realtà destabilizzante, non familiare, priva di binari e ambigua. Mi chiedo ancora: cosa ne sarebbe di un’arte che agisce come qualcuno che, “al fine di affrontare obiettivamente i grandi problemi del nostro tempo”, si basi ancora su categorie concettuali quali giusto e sbagliato?
Tornando a Unique, le cose erano immacolate, mentre gli zombie continuavano a indugiare sul marciapiede. Più tardi ho scoperto che erano in attesa per gli autografi. I Rammstein si trovavano in hotel.