Fuori Biennale / 57a Biennale d’Arte La Biennale di Venezia

13 Luglio 2017

A pendere dal vestibolo del Padiglione Centrale, e a scandire così il razionale colonnato d’ingresso, è Yves Klein Blue (2015) di Sam Gilliam. Il morbido e variopinto drappeggio, omaggio all’artista francese, agghinda a festa una biennale spensierata e gaudente, votata a un’eurocentrica joie de vivre. Perché secondo Christine Macel l’arte non è il modo e neanche il luogo per cambiare il mondo, ma lo spazio che permette una via di fuga dai drammi contemporanei, per riflettere sul sé e ripartire dal soggetto (attitudine che la curatrice definisce “neo-umanesimo”). “Viva Arte Viva” dunque dichiara la resa dell’arte come motore di trasformazione e propone un ritiro nell’universo autopoietico dell’immaginazione. A demarcare il confine tra interno ed esterno – segnando la separazione tra uno spazio espositivo seraficamente disimpegnato e un mondo in tumulto – sono gli stendardi policromi di Gilliam. La bandiera, oggetto colonialista per antonomasia (nata con le Crociate Cristiane per segnalare una conquista geografica e culturale), simboleggia un rifiuto del presente e una reazione al passato – più precisamente, alla precedente biennale di Okwui Enwezor e alle bandiere nere di Oscar Murillo, situate nella stessa posizione di quelle di Gilliam.
Ma può una bandiera di confine determinare una completa estromissione delle agitazioni, delle incertezze e delle emergenze dell’oggi? E ancora, è sufficiente ammainare il vecchio vessillo per porre fine a un discorso riguardante, in questo caso, l’arte come strumento di rigenerazione ideale e fattuale?

In Laguna molteplici sono gli esempi di mostre che catturano l’ininterrotto processo di contestazione e rinegoziazione attuato dall’arte. A iniziare da “Space Force Construction”, presentata dalla V-A-C Foundation – la fondazione moscovita aperta nel 2009 da Leonid Mikhelson e dedicata allo studio e alla promozione dell’arte russa – nel suo nuovo spazio veneziano a Palazzo delle Zattere. L’esposizione, con estrema consapevolezza ed eleganza, tratta il rapporto tra gli ideali politici e le utopie artistiche, proponendo un dialogo tra un centinaio di lavori appartenenti al periodo bolscevico e opere di artisti contemporanei come Wolfang Tillmans, Tania Bruguera, Barbara Kruger, Cao Fei, Christian Nyampeta, Irina Korina. L’allestimento gioca molto con la scenografia, ricostruendo installazioni storiche (Stanza per l’arte Costruttivista [1926] di El Lissitzky) o addirittura opere mai realizzate (il Chiosco della Propaganda [1922] di Gustav Klutsis, esistente solamente in alcuni disegni dell’artista), in un magistrale equilibrio tra realtà e finzione.
Un’altra mostra che ricorre alla messa in scena è “The Boat is Leaking. The Captain Lied” della Fondazione Prada presso Ca’ Corner della Regina. Qui a essere messo in dubbio è lo statuto stesso dell’immagine, che viene portato al limite, in quel territorio in cui la realtà e l’inganno arrivano a sfocarsi e, allo stesso tempo, fondersi. L’artista Thomas Demand, il regista Alexander Kluge e la scenografa Anna Viebrock hanno lavorato assieme intrecciando i propri immaginari, i saperi e le tecniche in un’opera d’arte totale, un carillon espanso che pilota lo spettatore in una riflessione labirintica sullo stato attuale di post-verità – ovvero la comune tendenza ad accettare come veritiera un’informazione non accreditata.
Macel ha più volte affermato che “Viva Arte Viva” è un inno al fare. La curatrice intona un motivetto armonico, equilibrato e dalla musicalità pulita che, come dimostrano le presentazioni collaterali di Samson Young per “Hong Kong in Venice” e di James Richards per “Wales in Venice”, non corrisponde alla distorsione e all’asincronia dell’oggi. Con il progetto site-specific “Songs for a Disaster Relief” Young si riappropria di alcuni famosi charity single (canzoni prodotte e registrate per scopi di beneficenza) storpiandoli e usandoli per restituire una cultura pop superficialmente impegnata. Richards offre invece un’esperienza ambientale, una riflessione sul proprio paesaggio interiore al quale si accede passando per un’esperienza sonora iniziatica, un campionamento di suoni distorti studiato per gli spazi di Santa Maria Ausiliatrice.
Un tentativo di decostruzione dei conflitti interni si ritrova anche in Roja (2016) di Shitin Neshat. In quest’opera filmica l’artista iraniana esplora, in una dimensione surrealista e attraverso l’utilizzo di un alterego, i propri sogni e incubi come la paura dello straniero e il desiderio di ricongiungersi con la madre e la sua terra natia. Questo è forse il lavoro più potente della sua mostra presso Museo Correr, parte di una più grande costellazione di personali presentate in laguna, da quelle degli italiani Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Ettore Sottsass, Marzia Migliora e Yuri Ancarani, agli stranieri Marina Abramović, Pierre Huyghe, Philip Guston.
Le esposizioni di Boetti e Sottsass si contraddistinguono per l’eleganza dell’allestimento (specchio della collaborazione con Fondazione Cini), mentre le mostre di Migliora e Ancarani (rispettivamente a Palazzo Ca’ Rezzonico e a Caffè Florian) testimoniano una generazione italiana mid-career viva e attiva, con ricerche e pratiche ben definite e in sviluppo.
Ad adottare un inedito punto di vista critico è invece la retrospettiva dedicata a Philip Guston alle Gallerie dell’Accademia; qui la produzione dell’artista è attraversata impiegando un continuo confronto con l’ambiente della letteratura e della poesia a lui vicina, da Lawrence a Yeats fino a Eliot, Stevens e Montale.
Palazzo Fortuny, invece, si avvicina al discorso macelliano dell’artista sciamano e alla creazione come atto incontrollabile con “Intuition”, una collettiva molto ambiziosa sia per il numero di artisti selezionati che per la complessità dell’allestimento. Le opere, alcune di primigenia forza come il video The Ferryman (le passeur des lieux) (2016) di Gilles Delmas e Damien Jalet, non sempre risultano ben amalgamate, forse complice il caratteristico palazzo e la sua stratificazione in altezza.

Tornando agli stendardi di Gilliam, il limes sancito dalla loro presenza ha avuto come unico effetto quello di evidenziare ancora di più una lontananza tra la cosmesi anestetizzante della biennale e il sincero impegno riformatorio del fuori biennale. Quest’ultima tendenza è particolarmente ravvisabile negli interventi proposti dai paesi che hanno subito limitazioni di libertà, e dalle comunità alla ricerca d’indipendenza o riconoscimento internazionale. Tra questi troviamo il Taiwan che con la mostra “Doing Time” a Palazzo delle Prigioni presenta un piccolo campionamento del lavoro del maestro Tehching Hsieh, un artista che dal 1978 ha messo alla prova se stesso e la definizione di arte attraverso le sue “one year performace”, azioni dalla durata di un anno determinate da una rigida serie di regole autoimposte.
“Indian Water” è invece il progetto del Padiglione dei Nativi Americani, concepito dagli artisti Nicholas Galanin e Oscar Tuazon come una piattaforma di dialogo e cooperazione; nel corso dell’estate il padiglione ospita dibattiti sul tema dell’emergenza ambientale, la pulizia dei mari e l’inquinamento globale – temi quanto mai urgenti considerando la sempre più evidente policy anti-ecologista trumpiana.
Per concludere, risulta ora necessario muovere un ultimo passo all’interno del padiglione dell’Iraq a Palazzo Cavalli-Franchetti, parte del circuito ufficiale dei padiglioni nazionali. Qui è presente un sentimento ambivalente verso la storia: di ricongiunzione e di rottura, reverenza e iconoclasta. Artefatti antichi (salvati dai saccheggi al Museo Nazionale Iracheno) e lavori recenti sono inseriti all’interno di teche, ribadendo così sia una distanza tra l’opera e il fluire della vita che una necessità di protezione dell’oggetto artistico. Al termine della sala si trova Untitled, Mosul, Iraq, 31 Oct 2016 (2017) di Francis Alÿs. Il video girato a Mosul riprende una mano che con gesti veloci e decisi – attingendo copiosamente a una palette di colori ocra, terra e beige – tenta di fissare i peshmerga curdi e i carri armati che s’intravedono in secondo piano. Poi la mano afferra uno straccio, raschia via la pittura e l’azione si ripete.
Sembra che l’autore senza volto tenti di creare un’immagine all’altezza della situazione ma fallisca infinite volte; perché il mondo non è fissabile in una forma – ma questo non significa che, come afferma lo stesso Alÿs, l’artista debba cessare di esserne testimone.

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