Si conclude con la mostra Haemolacria il Laboratorio del Dubbio, un progetto di sette mesi che ha proposto sette interventi di artisti accompagnati da scrittori, autori, scienziati, musicisti e studiosi. Il progetto si è sviluppato in forme eterogenee, proponendo mostre, open-studio, conferenze e dialoghi, tesi a sviluppare una serie di esperimenti crossdisciplinari nel contesto di Toolbox, spazio di co-working a Torino.
Premessa
L’espressione “laboratorio del dubbio” racchiude in sé un paradosso semantico. Sebbene il termine “laboratorio”, traslato in ambito culturale e letterario, porti con sé una breve storia di connotazioni legate alla sperimentazione creativa sregolata, la definizione più rigorosa e generale, da enciclopedia[1], ci ricorda che la qualità di un laboratorio risiede originariamente nell’attendibilità delle misure che esegue. Le prove di verifica, effettuate su campioni o in situazioni di riferimento, consentono di classificare i diversi laboratori a seconda della realizzazione o meno di metodologie di controllo funzionanti, in quanto applicabili a un numero crescente di casi. Lo scopo principale di un laboratorio sta quindi nella standardizzazione delle tecniche di misura, il che implica la conseguente spinta a eliminare varianti sperimentali, perché possibili cause di errori.
Per definizione, il dubbio è invece uno stato soggettivo di incertezza, a cui consegue un’incapacità di scelta: gli elementi oggettivi sono insufficienti a determinare l’azione in un senso piuttosto che in quello opposto, causando un’immobilità temporanea o costante di colui che dubita. Definito dagli stoici come “esitazione a affermare o negare”, il dubbio è quel momento che conduce, nel corso dell’indagine, alla sospensione del giudizio, mediante il riconoscimento dell’indifferenza delle opposte ragioni.
Potremmo dedurre che un laboratorio del dubbio sia quindi una sorta di motore immobile, dove la sperimentazione rincorre la sua stessa coda generando una forza centrifuga o centripeta a seconda dei casi. “L’importante, dunque, è il movimento senza uno scopo. O forse è lo scopo stesso che cambiando direzione di continuo, genera movimento”, suggerisce Valerio Del Baglivo nel suo incipit al LDD05. Sorge immediato il riferimento all’automobile che gira su se stessa nel primo esperimento di Laboratory of Doubt (1999), l’opera di Carsten Höller che viene omaggiata nel titolo, e nello spirito generale del laboratorio. Nelle parole di Carl Michael von Hausswolff “l’idea dietro al progetto [di Carsten Höller] era precisamente quella di dimostrare una diffidenza fondamentale nell’ordinamento quotidiano delle cose, delle gerarchie pre-impostate della realtà urbana. Il dubbio, che taglia attraverso ogni strato di azione e decisione. Un silenzio critico”. [2] Il Laboratorio del Dubbio ha tentato di insediare, nello stesso ordinamento quotidiano delle cose, “un’ametista di incertezze”, una zona franca dove “tutto dovrà essere diverso da come potrebbe essere, e tutto dovrà essere messo in questione – tutto, tranne la capacità di porre nuove questioni”[3].
Date tali premesse, un report finale sul progetto non poteva che prendere la forma di una serie di domande aperte, che possono generare delle risposte, o meglio ancora altre domande, come auspicato nelle intenzioni iniziali del laboratorio. Per questo, in accordo con Sara Enrico, Ruben Levi, Marco Rainò, Gianluigi Ricuperati e Elisa Sighicelli le domande che seguono non saranno una chiusura del discorso iniziato dal Laboratorio del Dubbio, ma piuttosto uno spunto e un incipit per la prossima fase del progetto, che comprenderà un momento di riflessione critica sotto forma di talk ad Artissima 2016 e la realizzazione di una pubblicazione finale sui sette mesi appena conclusi.
1. Indisciplinarietà
Il laboratorio del dubbio si è prefisso l’obiettivo di proporre “sette mesi di esperimenti crossdisciplinari”. Ogni capitolo ha visto il coinvolgimento di un artista, a cui è stato chiesto di invitare a sua volta un esponente di un’altra disciplina. Sara Enrico ha invitato il musicista Nicola Ratti nel LDD01; Paola Anziché ha coinvolto Francesca Picchi, architetto, e Sandro Caranzano, archeologo, nel LDD02; Giovanni Oberti si è rivolto a Daniele Cremaschi e Andrea Giansanti, ricercatori e designer nell’ambito della realtà aumentata, per il LDD03. A partire dall’esempio storico dei “100 days – 100 guests” in Documenta X (1997) a cura di Catherine David, sempre più progetti espositivi, curatoriali e culturali hanno integrato molteplici discipline nel loro processo, e nei modi più disparati – tanto da rendere le differenze tra i termini “pluridisciplinare”, “multidisciplinare” e “transdisciplinare” a volte vacue o inadatte a descrivere i risultati ottenuti o ricercati. Quando a Jacques Ranciére è stato chiesto se la sua pratica potesse venire descritta più come interdisciplinare o a-disciplinare, la sua risposta è stata rivolgersi ad una terza strada, l’“indisciplinarietà”, sottolineando l’importanza di non concentrarsi sul superamento della divisione tra le discipline, quanto piuttosto sul tentativo di romperla del tutto. “La ripartizione tra le discipline si riferisce alla ben più fondamentale divisione che separa coloro che sono considerati qualificati a pensare da quelli considerati non qualificati; coloro che fanno gli scienziati e coloro che sono visti come gli oggetti di tale scienza”[4]. Il Laboratorio del Dubbio, a sua volta formato da cinque professionisti provenienti da sfere differenti, propone l’approccio specifico della “crossdisciplinarietà”, l’ipotesi di una via alternativa a tutte quelle qua sopra elencate. Come si posiziona questa prospettiva operativa rispetto all’eredità con cui è in antitesi e continuità?
2. OOO
Ogni capitolo del Laboratorio del Dubbio ha assemblato una costellazione di materiali eterogenei, tutti facenti parte, di diritto, del microcosmo del dubbio. Ai lavori degli artisti sono stati associati testi commissionati ad hoc, la produzione di oggetti reali e oggetti virtuali, il coinvolgimento di relazioni umane, artificiali o a distanza, racconti letti ad alta voce, narrazioni postume e metafore condivise. Nel progetto di Giulia Cenci e Marco Mazzoni per il LDD05, il primo oggetto preso in considerazione è il testo Marmi (1982) di Iosif Brodskij. La storia è ambientata in un futuro distopico e i protagonisti sono due prigionieri in una torre altamente sofisticata e dotata di tutti i comfort. Tutti gli oggetti che vengono ammessi nella stanza-prigione sono controllati sulla base di un principio rigidissimo, secondo cui il peso totale nella stanza deve restare sempre inalterato: se qualcosa entra, qualcosa deve uscire, e nessuna categoria o qualità degli oggetti conta se non l’aderenza alla legge del peso. Secondo lo stesso principio, Cenci e Mazzoni hanno trasformato il laboratorio in “uno spazio dove quello che accade non ha conseguenze, dove il peso delle cose resta invariato. Tutto ciò che lo attraversa cambia, muta, perde una forma per acquisirne un’altra, più necessaria e urgente ad un frammento di Tempo. Ogni gesto, ogni azione, ogni desiderio – proprio come nella “Torre” – lascia una traccia: una ‘registrazione’ che diviene nota diversifica un secondo dall’altro, il segno che connota un frammento di spazio”. Durante l’open studio del LDD05 uno dei temi che aleggiavano nella stanza-torre-prigione in Via Egeo era l’aderenza alla Object Oriented Ontology (OOO), la scuola di pensiero che rifiuta la convinzione kantiana secondo cui per approcciarsi al mondo sia necessario partire preventivamente dalle condizioni e dai limiti della conoscenza. Per la OOO il mondo è fatto di oggetti – singolarità irriducibili le une alle altre – ed ecosistemi, gruppi, istituzioni, società, esseri umani e burritos hanno la stessa dignità di essere reali e di partecipare al mondo, secondo un rifiuto del privilegio dell’esistenza umana sull’esistenza di oggetti non umani. Mi sono chiesta se il Laboratorio del Dubbio abbia omaggiato questa scuola di pensiero nei suoi presupposti come nella sua grafica (OOO O). Come si può descrivere la “democrazia degli oggetti” che in questi mesi si è andata a creare, e quali sono i principi di inclusione o esclusione entrati in gioco nella sua definizione?
3. Poesia speculativa
Seguendo la suggestione della “democrazia degli oggetti” si possono approfondire le relazioni tra le diverse discipline che si sono susseguite nel laboratorio. Nello specifico, mi sembra rivelatore il rapporto tra queste e la specificità della forma scritta, onnipresente in tutti gli esperimenti, e cristallizzato in Haemolacria, la “mostra narrativa” a conclusione dell’intero progetto. Vincenzo Latronico, invitato a scrivere un testo per il LDD01, sviscerava questo tema nell’aspettativa, spesso frustrata, di una funzione descrittiva oggettiva che proiettiamo sulla scrittura: “È molto raro veder scardinata l’attesa di coerenza, tematicità e analiticità che si ha nei confronti di un testo. La prosa è il veicolo (o forse la strada o forse il combustibile) dell’argomentazione logica, e in quanto tale le si chiede di fare un lavoro da cui non si può prendere troppe libertà. […] Da un certo punto di vista questo può testimoniare semplicemente il doppio statuto della lingua scritta – diciamo sia come mezzo espressivo che come mezzo strumentale, proprio come una mostra di Jeff Wall avrà comunque bisogno di installation views. Da un’altra parte, la stessa necessità di questo doppio uso sembra implicare una forma di gerarchia: il fatto che uno dei due usi resti inevitabile sembra negare l’evoluzione di cui l’altro si vorrebbe testimone: non c’è stato superamento”. Kate Hiley, dal LDD04 in collaborazione con Sofia Silva, si sofferma sul tema per un istante, nel flusso di coscienza dialogico tra le due pittrici: “Essendo la pittura linguaggio non la si può definire sbagliata, poiché l’errore è in realtà un neologismo. Mi diverte molto quando ci affidiamo al linguaggio delle parole per descrivere la pittura che di per sé è un linguaggio parallelo a quello scritto o parlato”. A conclusione del progetto, e dopo l’esperienza di Haemolacria, in cui il meccanismo si è rovesciato ed è stato chiesto ad ogni artista invitato di rispondere ad un testo con la produzione di un’opera, quali modalità e gerarchie sono emerse da questo rapporto?
4. La condizione del dubbio
“Il dubbio è una condizione costruttiva quanto alienante” è il titolo, mutuato dal Sofista di Platone, del testo composto da Keti Shehu per il LDD03. L’ambivalenza della condizione del dubbio, inteso come costrizione autoimposta, ritorna nella ricerca di molti degli artisti coinvolti nel laboratorio. Nel suo dialogo con Francesca Picchi durante il LDD02, Paola Anziché sottolinea la necessità di non avere il controllo totale sulla materia che manipola, incapsulando la condizione del “dubbio” nell’oggetto con cui l’artista interagisce. Le forme degli Intrecci di Anziché sono “il risultato dell’impossibilità di attorcigliare, di intrecciare, di lavorare questi materiali [foglia di paglia, fibre di canapa, saggina, vimini, sughero] tra loro”, ed è da questo limite che la forma viene infine generata. Sembra quasi risponderle Sofia Silva, dal LDD04, quando afferma “La libertà totale è troppo pazza e dopo un po’annoia; penso che il pittore dia il proprio meglio mentre lotta per conquistarla, non quando l’ha in pugno. I limiti ci permettono di creare, di esperire il sublime, di compiere questi errori necessari”. La calibrazione rigorosa del dubbio all’interno del lavoro artistico sembra essere uno dei topoi della ricerca di Sara Enrico, LDD01: il controllo dell’imprevedibile all’interno della produzione pittorica si sviluppa per Enrico nel dialogo crossdisciplinare con il sistema strutturato delle industrie, o con la logica automatizzata dei processi digitali. Le procedure razionali e standardizzate di tali tecniche vengono forzate e portate alle loro estreme conseguenze nel lavoro dell’artista, fino a rivolgerle contro la loro stessa coerenza interna, a favore della sperimentazione di un nuovo linguaggio pittorico. L’ambivalenza del concetto di dubbio nella dialettica tra “know-how” e “no-how” porta a chiedersi se, nelle sue intenzioni iniziali, il laboratorio voleva essere il perimetro immaginario della libertà d’azione più assoluta o al contrario un limite conoscitivo, imposto come sfida alla pratica tradizionale degli artisti coinvolti. Ne consegue una seconda domanda, ovvero in che modo la scelta degli artisti invitati abbia tenuto conto di questi presupposti.
5. Curare la ricerca
“Sempre più spesso, il termine ‘curatoriale’ viene espresso con un riferimento a modalità del divenire – pratiche basate sulla ricerca, dialogiche, in cui la processualità e il caso si sovrappongono ad azioni speculative e forme di produzione senza scopi o limiti precisi”[5]. È sempre più sentita oggi la responsabilità del curatore come ricercatore, il cui raggio d’azione vada oltre al semplice allestimento di mostre. Allo stesso tempo, perde terreno la tradizionale tipologia autoriale di curatela, orientata a una narrazione univoca costruita attraverso i lavori degli artisti, o alla definizione di una sovrastruttura generale a partire da un tema o un concetto inclusivo. Nelle parole di Maria Lind, “immagino la curatela come un modo di pensare in termini di interconnessioni: connettere oggetti, immagini, processi, persone, luoghi, storie e discorsi in uno spazio fisico, come un catalizzatore attivo, che genera torsioni, cambiamenti e tensioni”[6]. Parallelamente alla crescita dell’importanza posta sul processo di ricerca degli artisti, la figura del curatore è permeata dalla sfida costante di porre questioni che vadano oltre una retorica forma interrogativa – e spesso fallisce tentando nell’impresa. Trovo interessante che nessuno degli ideatori del progetto sia un curatore di professione. Questo mi porta a chiedermi quale sia la loro posizione rispetto al ruolo curatoriale, dopo l’esperienza ex abrupto del Laboratorio del Dubbio e il rapporto diretto vissuto con la curatela delle ricerche degli artisti invitati.
6. Il tempo della modernità
Il sesto capitolo del laboratorio del dubbio ha visto come protagonisti il moderno e la sua architettura: in due incontri ravvicinati all’inizio di luglio, hanno raccontato del loro lavoro Cristian Chironi (LDD06-1) in dialogo con Giangavino Pazzola, e i fondatori di CAMPO (LDD06-2). Cristian Chironi ha deciso di immergersi in un progetto a tempo indeterminato: l’artista risiederà, nel corso dei prossimi anni, in ogni edificio abitabile costruito da Le Corbusier, utilizzando i progetti dell’architetto come punto di osservazione privilegiato dell’eredità socio-politica del modernismo. CAMPO è invece un progetto di base a Roma, le cui iniziative sono descritte come “liturgie della conoscenza, attraverso le quali possiamo pazientemente costruire un archivio comune di lavori, una fortezza contro l’evanescenza della memoria e l’instabilità dei significati”. La scelta di parlare di modernità e del suo lascito mi sembra quanto mai attuale, specialmente se analizzata attraverso il filtro della temporalità. Il tempo è infatti uno degli elementi più ambigui e oggi affascinanti del concetto di “moderno”, se consideriamo per esempio le teorie accelerazioniste, che hanno problematicamente rivalutato la modernità per andare alla ricerca di una super-modernità, in grado di accelerare i processi del neoliberalismo avanzato, nel tentativo di indurlo alla sua stessa autodistruzione. In questo senso, sarebbe interessante approfondire l’incontro e la frizione tra le intenzioni di una temporalità estesa e indefinita dei due progetti invitati e le tempistiche serratissime del Laboratorio del Dubbio, fin dal principio descritto come un “esperimento a tempo”. In che modo la riflessione sulla modernità si è rivelata importante nell’economia generale del progetto? Potremmo descrivere il Laboratorio del Dubbio come un esperimento accelerazionista?