Cesare Pietroiusti e Giancarlo Norese sulla Fondazione Lac o Le Mon / San Cesario di Lecce

31 Ottobre 2016

Lu Cafausu, singolare costruzione situata in un piccolo paese del leccese, ha innescato nel collettivo composto da Emilio Fantin, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti, Luigi Presicce, Luigi Negro, una serie di riflessioni che, nel 2006, hanno dato avvio a una ricerca artistica che oggi è ancora in atto e che sta vivendo sviluppi multiformi tra cui la “Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte)” – celebrazione attiva dal 2010 – e l’istituzione di Fondazione Lac o Le Mon nel 2015. Giancarlo, Cesare, potreste raccontare come Lu Cafausu è stato fonte di suggestioni e come è nato il progetto?

GN: Mentre lavoravamo al quarto libro di Oreste, Luigi Nigro ha condiviso con noi la storia di Lu Cafausu, un termine che in dialetto salentino significa il “falso Luca” ma che in realtà ha poi scoperto essere un luogo reale, fragile e inclassificabile, a metà tra lo stato di abbandono e l’orgoglio protettivo di un monumento, situato a San Cesario di Lecce.
Lu Cafausu deriva dall’inglese coffee house. È un padiglione di un giardino che non esiste più, di una villa che non esiste più. Era il luogo dell’ozio dove ci si incontrava per un caffè, leggere, chiacchierare. Lu Cafausu è stato allora il pretesto per unirci nuovamente. Nel 2006 ci siamo recati a San Cesario e lo abbiamo ripulito. Io ho preparato il caffè. Cesare con il caffè ha realizzato dei disegni, Fantin ha stirato degli stracci mentre le persone intorno ci osservavano. Questo è stato l’inizio.

Che cosa rappresenta per voi un luogo del genere, al confine tra reale e immaginario?

CP: Lu Cafausu è un luogo dalle caratteristiche molto strane, a metà tra l’eccezionale e l’insignificante. Ci è sembrato una metafora della nostra stessa condizione. Abbiamo tentato di capire cosa fosse, quale fosse la sua storia, cercando di ricavarne delle informazioni. Presto però ci siamo resi conto di essere stati noi a costruire una narrazione attorno a questo luogo. Abbiamo allora avviato esperimenti di scrittura collettiva che continuano ancora adesso, costruendo delle storie in parte vere, in parte di fantasia. Il residuo di un’architettura scomparsa è diventato il centro di una costruzione di tanti immaginari che hanno forse a che fare con la storia reale del luogo.

Nel 2015 avete poi aperto Fondazione Lac o Le Mon, un antico casale che ospita workshop, laboratori, attività comunitarie. Come mai questo nome?

CP: Sugli atti il terreno del casale è denominato “Fondo lacrima o le moniche”. La lacrima non è il pianto ma il vino, e le moniche non sono le monache bensì le lumache, che in zona sono dette monicelle. Non pena e clausura come potrebbe sembrare ma vino e lumache, da bere e da mangiare. È un nome ambiguo, un po’ come Lu Cafausu.

Da dove proviene la necessità di trovare una sede fissa? Che tipo di attività si svolgono all’interno della Fondazione?

CP: Da una parte c’è la volontà di recuperare una dimensione comunitaria, declinandola verso una formazione al confine tra diverse discipline – anche detta transdisciplinare o interdisciplinare – ancora assente in Italia. Diversamente dai luoghi canonici di istruzione, qui si mette al centro lo spazio fisico – l’edificio, il giardino, il parco – e le esperienze vissute all’interno che fanno parte della quotidianità, dalla dimensione del cibo, al sonno, al divertimento.
Dall’altra, ci ha spinto l’amore verso questo luogo. Si tratta di una realtà molto interesse che però è ad alta, altissima marginalità. A serio rischio di scomparsa e abbandono.

GN: Il fatto di avere un luogo fisico per la prima volta non è iniziato con leggerezza. Lu Cafausu è anche la metafora di qualcosa rivolto a metà tra il futuro e una dimensione arcaica. È una necessità andare oltre le open call, i bandi e tutto questo tipo di ridondanza comunicativa, per prediligere un incontro tra corpi e una dimensione più analogica. Cerchiamo di creare una condizione ottimale per facilitare una conoscenza reciproca calma e profonda, ad alta qualità relazionale.

In che cosa consiste la “Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte)”, la cerimonia con cadenza annuale che avete istituito dal 2010 e che si svolge ogni 2 novembre, nella giornata che da tradizione è dedicata alla commemorazione dei defunti?

CP: È come se avessimo reinventato una festa nazionale. Si tratta di una riflessione sulla morte come trasformazione, soglia, mistero, ma anche come necessario orizzonte di senso. Per noi il 2 novembre rimane come un appuntamento fisso. L’anno scorso in quella data abbiamo costituito la fondazione, scavando simbolicamente e materialmente alle fondamenta della Casa Cafausica e facendo riemergere così una cantina scomparsa. Su una parete era impresso un pentagramma musicale che poi è stato spunto per l’orchestrazione di una piccola melodia da parte di Luca Tarantino.

 

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