Fondazione Malutta

13 Aprile 2017

Marco Tagliafierro: Descrivete l’atmosfera di Fondazione Malutta a metà tra una bottega rinascimentale e un party improvvisato in un luogo segreto. Perché la parola Fondazione nel vostro nome?

Fondazione Malutta: Una delle figure retoriche presenti in poesia è l’ironia, che consiste nell’affermare qualcosa che è esattamente il contrario di ciò che si vuole intendere. Si tratta di un tipo di comunicazione che richiede la capacità di cogliere l’ambiguità sostanziale dell’enunciato. Fondazione Malutta straborda di ironia.

MT: Per il vostro statement avete minato uno dei più grandi tabù ancora attivi nel contemporaneo, anche per ciò che concerne le arti visive: “l’arte è allergica ai confini”, con confini intendo non solo le aree di provenienza culturale, mi riferisco agli iati generati dai differenti contesti formativi e soprattutto di curriculum. Come riuscite ad essere così sottili e coraggiosi? 

FM: Fondazione Malutta conta più di trenta artisti tra i 20 e i 35 anni. Il nostro è un confluire di gradi di esperienza differenti volti ad arricchire la qualità e la ricerca comune. Più che coraggiosi ci piace definirci fortunati. Grazie dei complimenti comunque!

MT: Tra il vostro intervento all’interno del Padiglione Albanese durante la XV Biennale di Architettura a Venezia e la mostra ospitata questo mese al Tulla Culture Center di Tirana avete consolidato una vostra convinzione teorica: “non c’è punto d’arrivo ma è lo spostamento il vero luogo in cui stare”, come si è sviluppata ed è maturata questa presa di coscienza?

FM: La nostra convinzione non è solo un’attitudine allo spostamento fisico, ma soprattutto è un approccio al lavoro in cui è necessario spostare idee e immagini. Ne è esempio la collaborazione con l’architettura immateriale del Padiglione Albanese, il cui progetto approfondiva il tema del cambiamento e del dislocamento. Qui, nella duplice veste di ospiti e stranieri, abbiamo incontrato i canti iso-polifonici che invisibilmente ne costruivano lo spazio. I lavori sviluppati sono stati esposti quattro mesi dopo proprio in Albania, evidenziando così i concetti di migrazione ed espatrio di cui il Padiglione era portavoce.

MT: Premettendo la mia totale stima per Paola Capata che vi ha ospitato da Monitor, vorrei chiedervi di raccontare che approccio avete adottato lavorando con una galleria d’arte così affermata.

FM: Come si è detto prima parlando di confini, nel nostro fare partiamo sempre dal presupposto di un collettivo “sconfinato”: il pensiero è che ad un certo punto il dialogo che si crea diventi una pratica sociale, capace di ampliarsi su strade al di fuori di ogni contesto, al di là di chi ne fa parte o del luogo in cui viene espressa. Si tratta di estendere la sua natura e vedere il tutto come parte di una composizione unica. Paola Capata ha accolto questa nostra esigenza e coraggiosamente ci ha aperto le porte di Monitor.

MT: Last but not least, come finanziate i vostri progetti?

FM: Colletta fioi! I nostri progetti sono principalmente auto-sostenuti. In alcuni casi abbiamo ricevuto dei finanziamenti, come è avvenuto con la Galleria Monitor e il Tulla Culture Center.

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