Jonathan Monk Massimo Minini / Brescia

12 Gennaio 2017

Sabato 2 gennaio 2013 inaugurava presso la Galleria Massimo Minini la mostra “Ettore Spalletti / Sol LeWitt”, parte del ciclo di doppie personali che celebravano i quarant’anni della galleria. In quell’occasione, sul muro di fondo era stato realizzato dalla Fondazione Sol LeWitt un wall drawing, coperto alla fine della mostra da una controparete in cartongesso e quindi apparentemente dimenticato. È questo avvenimento ad attirare la curiosità di Jonathan Monk, conoscitore intimo e profanatore dell’opera di LeWitt, che rimuove il cartongesso recuperando il lavoro dell’artista americano.
Una volta liberata l’anima in alluminio del vano, composta da lamine verticali, Monk aggiunge altre quattro file orizzontali, costituendo una grata visiva che fa da eco e sovrastruttura al wall drawing di LeWitt. In bilico tra l’ambiguo ruolo di prigione autoriale e di rinforzo concettuale, la griglia filtra e rappresenta il rapporto tra Monk e LeWitt, divenendo soggetto geometrico atto a inquadrare un’altra serie di lavori presentati in mostra, Nineteen Reasons (why my father might have kept an Observer Magazine from 18 November 1979) (2016). Le diciannove ipotetiche e ironiche ragioni per cui il padre di Monk avrebbe dovuto conservare un vecchio numero dell’ “Observer Magazine” sono presentate sotto forma di altrettante fotografie tratte dalla rivista. Immagini di ballerine di burlesque, una recensione di William Feaver su una mostra post-impressionista alla Royal Academy, pubblicità di whisky Black Label e di sigarette Gitanes sono alcune delle giustificazioni trovate da Monk sfogliando la rivista, fotografate e non esposte direttamente per addensare la dimensione di dicotomia tra copia e originale. Ogni fotografia è protetta da una grata di canne di bambù, fusioni in bronzo pendenti dal soffitto.
Monk si munisce di una lente per filtrare l’oggetto, omaggiandolo e, al tempo stesso, mettendone in discussione la natura ontologica. La lente adottata gli permette di aprire una rinegoziazione dei suoi riferimenti, affilando continuamente questioni come frecciate dirette all’autorialità e all’originale, all’attribuzione e quindi al commercio, ridelineando così, di volta in volta, le sue coordinate identitarie.
La mostra riporta numerose appropriazioni ad opera dell’artista: da Il magnete italiano (2016) in cui rende l’iconica Italia di Luciano Fabro una grande calamita da frigorifero, a Say Hello Wave Goodbye II-III (2016) dove riprende alcuni frame del celebre I’m Too Sad to Tell You (1971) in cui Bas Jan Ader piange davanti alla macchina da presa. Monk cancella a gouache il volto e lo sfondo dell’immagine, mantenendo visibile unicamente la mano di Ader.
Alcune di queste operazioni riescono a sviluppare un’ulteriore tappa nel processo di riflessione sull’autore. Si tratta delle appropriazioni di quegli artisti che hanno inseguito la via del grado zero, quella della neutralità – in alcuni casi fino all’abdicazione del controllo autoriale –, la via che la critica ha indicato come deadpan. Tra questi, oltre a Sol Lewitt, risulta anche Ed Ruscha, altra silenziosa fonte per la mostra di Brescia: i suoi libri d’artista Twentysix Gasoline Stations (1963), Nine Swimming Pools and a Broken Glass (1968), ma soprattutto Real Estate Opportunities (1970) riecheggiano esplicitamente nelle Nineteen Reasons dell’ “Observer Magazine”. Impossessandosi di un’impersonalità autoriale, Monk raddoppia il filtro interpretativo e la critica all’autore, offuscando la componente sentimentale: le “laconiche” registrazioni delle stazioni di servizio in realtà documentano la traversata di Ed Ruscha da Los Angeles a Oklahoma City in visita ai suoi genitori, così come le canne di bambù di Monk richiamano la coltivazione di fagioli della madre.
Quando anche l’artista cui guarda Monk contrae, dilata o ripensa lo statuto dell’autore, sembra possibile chiudere il cerchio, e l’operazione risulta coincidere perfettamente con la natura dell’opera e con il codice dell’artista, come nel seguire un’istruzione non autorizzata, celata nell’opera.

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