Qual è il ruolo e il senso di fiera di matrice eurocentrica, mentre un “mondo” globalizzato si interfaccia con un tentativo di riconciliazione con il passato colonialista e il Québec affronta un velocissimo processo di gentrificazione?
La Biennale di Montréal è consapevole della criticità di questa domanda. He was a poet and he taught us how to react and to become this poetry Part 2 (2016) di Tanya Lukin Linklater e The Desert People (1974) di David Lamelas sono tra le risposte più forti a ciò che il curatore Philippe Pirotte, durante una visita all’esposizione, ha descritto come “situazione perversa”.
La Biennale, facendo riferimento a The Balcony di Jean Genet, intende offrire “un luogo in cui la rappresentazione stessa può essere turbata perversamente”. In accordo allo statement dei curatori Philippe Pirotte, Corey McCorkle, Aseman Sabet e Kitty Scott è proprio la perversione a opporre resistenza all’universalizzazione, lasciando che la fantasia diventi struttura e insieme elemento intrinsecamente individuale nel suo interfacciarsi con le cose.
All’interno della Biennale, questa perversione è generata dalla presenza fisica e dalla costrizione di molte delle opere in mostra, tra cui i falchi nell’ “opera” Angst III (2016) di Anne Imhof. Il pezzo che più consente di comprendere l’idiosincrasia dichiarata dell’arte è probabilmente Hemlock Forest (2016) di Moyra Davey, un omaggio intimo e gloriosamente libero a Chantal Akerman.
Che cosa rappresenta un incontro quando si tratta di persone piuttosto che di cose? Free Exercise (2016) di Marina Rosenfeld consiste nella partitura di un’orchestra composta da militari e musicisti sperimentali – una composizione su larga scala per batteristi e percussionisti. È stata eseguita la notte dell’apertura della Biennale all’Armeria del Fusiliers Mont-Royal di Les Fusiliers a fianco di Philippe Lauzier, Valérie Lacombe, Adam Kinner, Cléo Palacio-Quintin, Jessica Moss, Kristie Ibrahim e Noam Bierstone – luminari del contemporaneo a Montréal e di scene musicali improvvisate. Questo esercizio misteriosamente magico, ai limiti della tolleranza, è accompagnato dal motto Bon coeur et bon bras (Buon cuore e braccio forte) della Fanteria Maisonneuve. Dopo settanta minuti di tamburi e trombe, il suono di un giradischi finalmente è apparso per lasciare il posto a un’amplificazione del silenzio.
Ogni presenza produce un’assenza. Candice Hopkins mi ha aiutata a comprendere come, da una prospettiva locale, un’utopia divenga necessariamente una distopia. L’utopia del Nuovo Mondo è stata costruita eliminando il mondo che c’era prima. Ci sono diverse teorie sul tempo attive nel presente che non possono semplicemente essere riconducibili alla definizione senza tempo di “arcaico”.
Dunque ogni presenza produce un’assenza, e ogni presenza deve essere preservata. Corpus Cleaner, risultato della ricerca e produzione del collettivo Thirteen Black Cats con sede a New York – in mostra alla Galleria UQAM – si basa sulla corrispondenza tra Claude Eatherly, il pilota dell’US Air Force al quale furono “così chiare” le previsioni del meteo tanto da causare il bombardamento atomico di Hiroshima, e Günther Anders, un filosofo e attivista antinucleare tedesco. Prima di emigrare a Los Angeles, Anders ha lavorato come addetto alla pulizia del materiale cinematografico nella Hollywood Custom Palace. In questa corrispondenza, che si manifesta come voce fuori campo nel film, Anders cerca di evitare che Eatherly accetti l’offerta di un produttore di Hollywood di fare un film sulla sua vita, poiché convinto che il sistema hollywoodiano non sia in grado di elaborare l’atto catastrofico causato dalla bomba. “Il macchinista sa dove si trova tutto”, scrive Eatherly a Anders, “ma solo l’addetto alle pulizie lo vede completamente”.
La Biennale di Montréal del 2016 va incontro con la propria presenza a un’auto-critica capace di mantenere aperti gli orizzonti della città. Forse, per rendere possibile un’apertura verso l’esterno, avrebbe bisogno di abbandonare i “macchinisti” e arrendersi agli addetti alle pulizie.