Cecilia Alemani sul Padiglione Italia

4 Aprile 2017

Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey rappresenteranno l’Italia alla prossima Biennale di Venezia, chiamati a confrontarsi sul tema della magia. La scelta di esporre tre artisti da parte della curatrice Cecilia Alemani, in controtendenza rispetto alle numerose partecipazioni che hanno contraddistinto le mostre del Padiglione italiano nelle ultime edizioni della Biennale, si pone l’obiettivo di presentare un approfondimento sul lavoro degli artisti coinvolti, tutti alle prese con nuove, ambiziose produzioni.

Sara De Chiara: Finora si hanno poche notizie sul progetto che riunisce i lavori di Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey. Su quali premesse si basa il confronto tra questi tre artisti? Ci sarà un dialogo serrato tra i loro lavori? 

Cecilia Alemani: Si tratta di tre artisti nati tra gli anni Settanta e Ottanta e attivi a partire dal nuovo millennio che, a dispetto di molte differenze stilistiche, condividono una fascinazione per il potere trasformativo dell’immaginazione e un interesse nei confronti del magico. La mostra infatti si intitolerà “Il mondo magico” ed è ispirata dall’omonimo libro di Ernesto de Martino, antropologo napoletano e pensatore chiave dello studio del magico, nei cui rituali, ha individuato gli strumenti attraverso i quali l’individuo può padroneggiare una situazione storica incerta e riaffermare la propria presenza nel mondo. I tre artisti invitati non cercano nel magico una via di fuga nell’irrazionale, quanto piuttosto una nuova esperienza della realtà: per loro la magia è uno strumento attraverso il quale abitare il mondo in tutta la sua ricchezza e molteplicità. Ogni artista sta lavorando a un grande progetto, completamente nuovo. Avranno ciascuno il proprio spazio, ma ci sarà un percorso espositivo raccomandato e rimandi tematici e consonanze visive che spero lo spettatore potrà cogliere durante la visita.

SDC: La scelta di invitare tre artisti a rappresentare l’Italia segna un’inversione di rotta rispetto alle esposizioni nel Padiglione italiano delle ultime edizioni della Biennale, in cui ha prevalso una tendenza a voler mappare, o documentare in maniera esaustiva, il panorama dell’arte contemporanea nazionale. Cosa l’ha condotta a questa scelta e che responsabilità diversa implica per il curatore? Ma anche, che tipo di impegno comporta per gli artisti, chiamati a confrontarsi con uno spazio enorme, di circa duemila metri quadri?

CA: Non penso che il ruolo del Padiglione Italia sia di rappresentare una panoramica sull’arte italiana, ma piuttosto di guardare in profondità al lavoro di un gruppo ristretto di artisti, dando loro spazio, tempo e risorse per presentare al pubblico internazionale della Biennale un progetto ambizioso, che costituisca un’occasione imperdibile nella loro carriera e che possa offrire al pubblico l’opportunità di immergersi nella mente e nel mondo degli artisti. Il mio obiettivo è che questo Padiglione si allinei agli altri padiglioni nazionali, aprendo un dialogo che possa andare oltre i confini fisici di ciascun padiglione. Ovviamente una scelta come questa implica che gli artisti abbiano progetti molto più ambiziosi rispetto a quelli degli anni passati, ma anche più tempo per concepire un’installazione nuova, che instauri un dialogo profondo con l’architettura del Padiglione, senza volerne celare le caratteristiche architettoniche più eclatanti.

SDC: Il suo punto di vista dall’estero sull’arte italiana è un punto di vista privilegiato? Che visibilità hanno in questo momento gli artisti italiani fuori del paese? È possibile percepire un’identità italiana?

CA: Non penso tanto a un’identità artistica italiana; piuttosto m’interessano artisti e tendenze che siano in grado di aprirsi a un dialogo cosmopolita e internazionale, e non di chiudersi a riccio nel tentativo obsoleto di far parte o definire un movimento stilistico legato alla propria nazione. Ci sono ovviamente molti artisti italiani che ammiro e di cui seguo il lavoro e con cui ho lavorato in molte occasioni, ma questo ha meno a che vedere con il fatto che siano italiani e più con il loro lavoro e con i linguaggi che usano.

SDC: Ha avuto già modo di collaborare con gli artisti invitati? Com’è entrata in contatto con il loro lavoro?

CA: Conosco il lavoro di Roberto Cuoghi dai primi anni duemila, e ricordo molto bene la sua personale al Castello di Rivoli, ma questa è la nostra prima collaborazione. Ho lavorato invece sia con Giorgio Andreotta Calò che con Adelita Husni-Bey recentemente per la High Line a New York. Giorgio è un artista che seguo da parecchi anni, a partire dalla sua prima mostra personale da Zero…, a Milano, fino a quando si e trasferito a New York per il premio New York. Ho incontrato invece l’opera di Adelita a Meeting Point 7 nel 2013, ad Anversa.

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