“Il Collezionista” è una rubrica a cura di Gea Politi e Giulia Gregnanin. Strutturata in una serie di interviste alle personalità che costituiscono il collezionismo italiano, è un campionamento di attitudini, gusti, visioni che mostra la varietà e le peculiarità delle collezioni.
Gea Politi: In diverse interviste rilasciate definisci l’arte una passione. Come e quando è nata?
Mauro De Iorio: Non c’è stato un vero e proprio momento iniziale. Potrei dire di avere un’attitudine mentale a ragionare per immagini; quando penso a qualcosa, nella mia mente scorrono delle immagini e questo ha condizionato anche le mie scelte professionali: dopo l’università di medicina, infatti, ho scelto la specializzazione in diagnostica per immagini.
A 18 anni ho incominciato ad interessarmi di cinema e a fare fotografie con una Nikon regalatami da mio padre. A Bologna, all’Università, con altri due amici avevamo allestito nel nostro appartamento una camera oscura e dovevamo aspettare l’estate per avere una temperatura stabile per le stampe a colori. I risultati non erano eccezionali, ma eravamo comunque soddisfatti. In quegli anni ero affascinato dalle fotografie flou di giovani ragazze di David Hamilton e cercavo di imitarle.
Essendo impegnato politicamente, fotografavo anche le manifestazioni e gli eventi a cui partecipavo.
GP: In che modo eri attivo politicamente?
MDI: Erano gli anni del Movimento Studentesco e Trento – la città in cui sono nato – con la Facoltà di Sociologia era uno dei centri della rivolta: è qui che sono nate Lotta Continua con Mauro Rostagno e le Brigate Rosse con Renato Curcio e Margherita Cagol.
Ma la mia ribellione è iniziata negli anni Sessanta con il movimento Hippy, quindi capelli lunghi, vestiti colorati e musica pop. Era una rivoluzione di costume contro il conformismo ed il moralismo imperante: pensavamo veramente di cambiare il modo.
Giulia Gregnanin: Oggi questa tua attitudine la esterni in altri aspetti, come può essere l’interesse verso artisti che trattano temi politici?
MDI: Direi che nelle opere d’arte non sono interessato alle tematiche degli Anni Sessanta e Settanta, che ritengo superate. Oggi sono interessato ai giovani che cercano di interpretare la contemporaneità con le sue problematiche e contraddizioni.
La mia generazione ha lottato per l’eguaglianza sociale, l’emancipazione femminile, i diritti civili, il divorzio e l’aborto; oggi ci troviamo di fronte a conflitti nuovi quali la distruzione dell’ambiente, la minaccia dei nuovi media alla libertà individuale, l’accettazione delle diverse identità sessuali, l’immigrazione e il rispetto dell’individuo in una società multietnica, il problema del fine vita. Per questo mi piacciono artisti come Nan Goldin, Wolfgang Tillmans, Jon Rafman, Bunny Rogers, Andrea Crespo, Cécile B. Evans.
GP: Ti ricordi la prima opera che hai acquistato?
MDI: Le prime opere le presi da Massimo Di Carlo di Verona. Da lui, nel 2002, comprai Orfeo di Giulio Paolini che è ancora tra le mie preferite.
Oggi acquisto opere capaci di suscitarmi emozioni. Non ho la presunzione di credere che resteranno nella storia dell’arte; so solo che sono parte della mia ricerca personale e questo mi basta. Mi interessano i giovani perché attraverso le loro opere cerco di capire il tempo in cui vivo, ma apprezzo anche artisti moderni che parlano con il linguaggio della contemporaneità; tra questi mi piacciono Alighiero Boetti, Pino Pascali, Gino De Dominicis, Paolo Icaro, Gianfranco Baruchello, Giulio Paolini.
GG: E qui arriviamo al Giano bifronte, al voltarsi indietro per poi orientare lo sguardo avanti e leggere il presente.
MDI: Per me il Giano bifronte non è solo questione di passato e presente; è anche guardarsi dentro. Ho un interesse forte per l’arte metafisica dalle forme pure quasi ideali, ad esempio amo le opere di Spalletti con i suoi monocromi dalle tinte morbide e polverose. Quando guardo il suo lavoro appeso nel mio salotto mi perdo nel suo colore; mi sembra di essere in aereo quando, uscendo dalle nuvole, entro nel cielo azzurro.
Poi, d’altra parte, sono attratto dall’arte “conturbante” che esprime ciò che viene dal profondo della psiche: le cose più recondite, l’inconscio, i sogni. Ad esempio tempo fa ho acquistato una fotografia di Matthew Barney De Lama Lamina: A Raiz Da Lamina, nella quale ritrovavo le sensazioni che avevo da bambino quando la febbre alta mi procurava incubi psicotici. Oggi l’opera si trova a Venezia, davanti al mio letto e gli amici mi chiedono come possa dormire davanti ad un’immagine così inquietante. Paradossalmente a me dà una sensazione di serenità e di benessere.
GP: Ci sono delle opere alle quali sei particolarmente legato?
MDI: La scultura di Paolini, come ho già detto, è tra le opere che amo di più. La testa spaccata in due mi ricorda la dualità, principio con il quale mi confronto sempre: gli estremi che si confondono, lo yin e lo yang. E poi la scultura di Andra Ursuta Broken Obelisk: un obelisco rotto seduto su una sedia azzurra con lo sguardo triste e malinconico. Altra scultura che amo è Untitled 3 (Bronze Bodybuilders) di David Altmejd, con le cinque mani che scavano la superficie del corpo e che le mie nipotine chiamano “il mostro del nonno”. Altro “mostro del nonno”, che amo particolarmente, è la scultura di Pawel Althamer Filip che ho nella casa di Verona: uno scheletro con un’esplosione di bende che lo fanno sembrare quasi un ostensorio.
GP: Mi sembra ci siano molti riferimenti all’anatomia.
MDI: Sì, tanti; sono interessato in particolare ai lavori sul volto che non devono essere realistici, ma rimandare a qualcosa di altro. L’arte che mi interessa ha sempre una componente simbolica.
GG: Che strumenti utilizzi per rimanere aggiornato, per stare al passo rispetto al fluire di informazioni?
MDI: Molteplici. Innanzitutto le esposizioni nelle gallerie e le newsletter che queste mi mandano, poi le fiere, le riviste, i consigli degli amici collezionisti e galleristi, ma anche ciò che vedo online. Ad esempio, su Instagram seguo persone che possono restituirmi informazioni. Mi interessano gli artisti che usano questo social per pubblicizzare il loro lavoro così, se vedo qualcosa che mi interessa, chiamo immediatamente il gallerista.
GP: In Italia si riscontra spesso un grande individualismo. Quanto, per te, è importante l’aggregazione e la creazione di un network tra collezionisti?
MDI: Moltissimo. Attualmente sono parte del comitato di ArtVerona e la mia prima proposta è stata quella di creare un consorzio di collezionisti, che sia aperto non solo ai collezionisti blasonati ma anche ai collezionisti “minori” che magari non hanno grandissime collezioni ma che possiedono una grande passione.
GP: E qual è invece il tuo rapporto con i galleristi?
MDI: Molto buono. Con il tempo ho instaurato relazioni di stima e amicizia. Da Massimo Di Carlo persona di grande verve e simpatia, a Giorgia di Boccanera, a Massimo Minini e alla sua splendida famiglia, a Chiara Rusconi [APalazzo Gallery], a Raffaella Cortese, per citarne alcuni.
GG: Pensi che il collezionismo debba assolvere a delle incombenze?
MDI: Il collezionista è una persona che cerca immagini che soddisfino la sua fantasia, il suo demone interno. La mia collezione rispecchia la mia anima; i suoi aspetti contradditori sono per me importanti perché testimoniano un percorso psicologico di ricerca e di maturazione. Le opere d’arte sono per il collezionista oggetti speciali carichi di valenze emotive. È per questo che non riesco a separarmene anche quando mi piacciono meno.
Credo che il collezionismo nel mondo dell’arte debba far sentire di più il suo peso. Penso che la strada da percorrere sia quella delle associazioni di collezionisti che si impegnino non solo nel sostegno di giovani e delle istituzioni pubbliche, ma che organizzino autonomamente esposizioni ed eventi che diffondano la conoscenza dell’arte contemporanea.
GG: La scorsa edizione di ArtVerona si è mostrata vicina alle modalità virtuose di coinvolgimento del collezionista che figuri: dieci collezionisti sono stati affiancati da dieci giovani curatori, chiamati a dare una propria lettura delle raccolte. Come è andato il progetto?
MDI: Molto bene. Mi hanno affiancato a Sofia Silva, che non conoscevo, ed è stata un’esperienza entusiasmante. Queste sono belle iniziative che coinvolgono in un progetto più attori del mondo dell’arte.
GP: E come vedi la figura del collezionista come curatore?
MDI: Penso si debba uscire dall’idea che il curatore ed il collezionista siano ruoli rigidi. Vedo molto bene le contaminazioni di ruoli, le collaborazioni. È un modo anche per crescere.
GP: Molto spesso il mondo dell’arte, per sua costituzione, o per il fatto che sia marcatamente autoreferenziale, evita l’inclusione. Immagino non sia stato facile introdursi.
MDI: Il percorso di un collezionista è costellato di momenti di entusiasmo, ma anche di qualche delusione. All’inizio ho fatto fatica ad accreditarmi presso alcune gallerie italiane ed estere, poi le cose sono migliorate. Anche con i musei i rapporti non sono semplici. All’inizio, quando è nato in me il desiderio di acquisire installazioni e opere di grandi dimensioni, pensavo che la soluzione migliore fosse darle in deposito ai musei del mio territorio; così ho constatato che questi devono confrontarsi con problemi di spazio dei loro depositi, che rendono problematiche proprio le acquisizioni di opere di grandi dimensioni. Nonostante questo sono riuscito a dare in deposito a Museion di Bolzano una grande installazione di Korakrit Arunanondchai Untitled (Painting With History In A Room Filled With People With Funny Names 3) # 5, già esposta al Palais de Tokyo di Parigi. Al Mart di Rovereto ho dato in deposito molte opere, tra cui una grande installazione di Neïl Beloufa People’s Passion, Lifestyle Beautiful Wine, Gigantic Glass Towers, All Surrounded By Water, Office Version e Shaffholding Series e un’opera di Helen Marten Water The Scotch, presentata alla Serpentine di Londra. E ora darò un grande lavoro di Gianfranco Baruchello Acrobata Clandestin di 6m x 2m da poco acquistato da Massimo De Carlo.
Con il Mart mi sono anche impegnato a creare una piccola collezione di video da lasciare in deposito. Attualmente ci sono video di Neïl Beloufa, Mark Leckey, Bunny Rogers, Korakrit Arunanondchai, Cécile B. Evans. Bunny Rogers, Lili Reynaud-Dewar e l’ultimo, da poco acquistato da Giò Marconi, di Nathalie Djurberg.
GP: Qual è il tuo rapporto con gli artisti? Cerchi di conoscerli? A volte l’incontro dal vivo può rivelarsi una grande delusione…
MDI: In genere mi interessa la conoscenza dell’artista, ma se devo essere sincero, il mio rapporto preferito è quello con la sua opera, che cerco di interpretare e di valutare dal punto di vista emozionale. Mi piace poi confrontare le mie impressioni con quelle dell’artista. Ricordo a Venezia una piacevole conversazione con Maurizio Donzelli, a cena dopo la sua mostra a Palazzo Fortuny. Quando gli dissi che i suoi tappeti mi richiamavano alle memoria immagini legate alla psicoanalisi ed in particolare al “Libro Rosso” di Jung, lui rimase sorpreso e mi rivelò che queste immagini erano presenti in lui quando creò queste opere. L’interpretazione dell’opera d’arte per me è un momento molto bello e coinvolgente: delle volte corrisponde a quella dell’artista, altre volte no. È un po’ come quando, al liceo, traducevo dal greco: dopo i primi vocaboli si formavano nella mia testa dei nessi e nasceva un racconto che spesso non corrispondeva alla traduzione letterale. L’arte è un po’ così, si aggancia ai tuoi percorsi psicologici, alle tue emozioni, facendoti dare un’interpretazione personale alle volte completamente diversa da quella degli altri. Io le traduzioni dal greco le sbagliavo spesso.
GG: Come invece definiresti il tuo rapporto con il territorio?
MDI: Credo che per un collezionista sia importante sostenere il sistema dell’arte del suo territorio. L’arte è un’esigenza primaria, è come l’aria che respiri, il cibo che mangi: ti serve per essere vivo. È una tappa imprescindibile in un processo educativo. Per questo deve essere presente in maniera capillare sul territorio e deve essere a disposizione di tutti.
Chi ha la fortuna di collezionare deve dare il suo contributo a far crescere questo sistema. Nel mio caso mi rivolgo, in primis, alle città in cui vivo: Trento e Verona, e poi al sistema italiano in genere.
GP: Compri mai alle aste, oppure hai mai venduto all’asta?
MDI: Con le aste non ho molta dimestichezza. Ho comprato solo due volte: da Phillips mi sono aggiudicato un dittico di Roger Hiorns Untitled esposto da Saatchi all’inizio della sua carriera e che ora si trova nel mio studio a Rovereto; da Christie’s ho acquistato un’opera di Nan Goldin Gilles and Gotscho, una serie di quattro fotografie che avevo visto in un museo di Oslo e che, a mio avviso, è una delle testimonianze più toccanti del dramma dell’Aids.
Ma non ho mai venduto niente, né alle aste né fuori. Un mio pezzo di Danh Vo, acquistato da Isabella Bortolozzi, alle aste di Londra era salito alle stelle. Tutti mi consigliavano di venderlo. Ma secondo me non aveva senso, faceva parte della mia narrazione, della mia esperienza…. e sopra il divano sta benissimo.