Jacopo Miliani Marsèlleria / Milano

20 Giugno 2017

Tre Pierrot nudi si muovono con gesti lenti e contenuti nel piano superiore di Marsèlleria. Calzini bianchi e sneakers nere dividono i loro corpi dal pavimento in cemento. Agitano monocromi circolari con leggerezza – ma come se fossero macigni di cui subiscono la presenza – mentre le parole di Ariana Grande “So one last time. I need to be the one who takes you home. One more time. I promise after that, I’ll let you go”, emesse al piano terra da cassa posizionata al centro della sala e collegata a un lettore MP3, avvolgono l’intero spazio espositivo. All’ingresso, un mimo afferra alcune tele appese alle pareti e, rivolgendosi verso il pubblico, cerca di riprodurne le linee astratte sul proprio volto. Nel basement, una geisha usa a mo’ di ventaglio una serie di dipinti triangolari dai colori accesi.
Questa è la performance introduttiva di “Male Male Malen”, la personale di Jacopo Miliani ospitata nelle due sedi milanesi di Marsèlleria e divisa in due momenti differenti ma concettualmente interdipendenti.
L’artista toscano gioca con i linguaggi, nella precisa e, allo stesso tempo, imprevedibile costruzione del suo ritratto: vi trovano spazio la madre, Antonietta Federici, alla quale Miliani chiede di dipingere cocktail (Gin Tonic, Bloody Mary, Cosmopolitan, Negroni, Manhattan, etc.) per la serie Mommy, I stopped drinking (2017); il pop mainstream, “canzoni che ascolto in questo momento” come le definisce l’artista (da Ariana Grande a Beyoncé); le personalissime pulsioni infantili legate alle maschere del Pierrot, della geisha, del mimo.
Sotto quest’intima corazza, all’apparenza imperscrutabile, Miliani nasconde un’urgenza, che riguarda la necessità di esplorare i limiti del visuale – un’indagine che lo posiziona “davanti all’immagine”, per dirla con Didi-Huberman. I suoi interventi sembrano prender la forma di commenti, chiose, al già stato e al già dato, e desiderano aderirvi e confondersi con questi. Nutrita dalle potenzialità della traduzione e della commistione, la sua pratica decostruisce il gesto pittorico, aprendolo all’eterotopia dell’evento temporaneo (alle fratture e agli urti che ne conseguono), e privandolo della dimensione autoteleutica di cui talvota è connotato.
“Male Male Malen” è un ritratto evanescente e inafferrabile e i Pierrot, la geisha e il mimo sono gli agenti di questa violazione, che prosegue e si estende ai confini della sessualità, qui allargata e fluida, ma restituita con lirismo, e con-fusione intraducibile. In Satomi (2017) la Geisha della performance, intrappolata nello scatto fotografico, mostra sul viso gli stessi segni dei dipinti che prima sventolava e che ora vanno a formare barba e baffi; il suo volto è il simbolo di una contraddizione irrisolta, aperta, quella dell’immagine, quella della sessualità.

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