Dai suoi esordi Giuseppe Gabellone conduce una ricerca atipica sulla scultura, che ne mette alla prova limiti e caratteri, e approfondisce aspetti come la relazione con il mondo naturale, la sperimentazione di materiali, il dialogo con l’architettura, il rapporto tra l’oggetto e la sua immagine. La sua prima personale romana s’inserisce in questo lungo percorso, focalizzandosi su un ulteriore elemento: il tempo, e dunque la finitezza delle cose viventi e la memoria.
La mostra mette in una sequenza precisa, rarefatta, le cinque opere che ne fanno parte, inquadrate negli spazi della Fondazione Memmo che l’artista ha privato di partizioni e aperto alla luce naturale. Il primo lavoro è una scultura di stagno che rappresenta una mandibola umana, poggiata a terra. Gli fa seguito una struttura realizzata con la stratificazione di fogli di carta intagliati, resi rigidi, quasi minerali, attraverso l’imbibimento con resina rossa e l’uso di fibra di vetro. Simili alla vertigine di curve sovrapposte di Untitled (1999) – una costruzione in compensato, fotografata e poi distrutta – le forme sinuose dei ritagli si accumulano su un’esile struttura in bambù, che li solleva da terra di pochi centimetri.
Successivamente un calco in bronzo di canne accostate tra loro, con una patina che lo rende simile a un reperto archeologico, è appeso al muro, più in basso del normale. Un’altra struttura di carta irrigidita, questa volta nera, prelude al lavoro che è l’apice del percorso, una monumentale installazione costituita da un cipresso tagliato e adagiato in orizzontale su una sorta di giaciglio, formato da un intreccio di fili di canapa ad altezza degli occhi. Durante il tempo d’apertura della mostra l’albero inevitabilmente secca, perdendo il suo verde, che si raccoglie granuloso e giallastro sul pavimento. Tutto evoca uno stato di quiete immota, che contrasta fortemente con la memoria dei primi video di Gabellone, espressione di un’energia incontenibile. Le sculture stanno come resti, reperti di ere diverse che lo sguardo inquadra da punti di vista obbligati, opponendo resistenza al concetto di tutto tondo.