Dopo una discreta latitanza dal mondo dell’arte, Vanessa Beecroft ritorna a esporre nel circuito contemporaneo con una mostra senza titolo, negli spazi della galleria Pio Pico di Los Angeles.
Colpisce dapprima la mole di lavoro: sono un centinaio le opere in totale, tutte datate 2017. Poi, impressiona la simbiosi fra le intenzioni dell’artista e quelle del gallerista, restituite in un percorso armonioso articolato in tre stanze incentrate sulla rappresentazione del corpo femminile, con una serie di sculture in ceramica, incisioni su ceramiche e dipinti a olio.
Da sempre interessata all’immagine del corpo umano, anche in questo caso l’artista si concentra nel restituirne un’impressione fisica. La dimensione spettacolare, una costante del suo lavoro, è in questo caso mitigata, favorendo un approccio più discreto. Ciò che appare inoltre diametralmente opposto rispetto al passato è la volontà di segmentare il corpo, di dividere, e di archiviare, rimandando l’esistenza globale della femminilità a un insieme infinito di possibilità.
Nella prima stanza risalta il grande basso rilievo in gesso Performance, che ricopre la parete principale nella quale una ventina di corpi sporgono appena, come se galleggiassero su una superficie liquida che ne nasconde la completezza, in una sorta di reliquiario che ricorda i corpi avvolti dalla lava di eventi appartenenti a un lontano passato, o a un lontano futuro.
La seconda stanza raccoglie invece una ventina di teste appoggiate su piedistalli in legno, ognuno differente dall’altro. Staticità e verticalità, elementi che da sempre hanno strutturato le performance dell’artista – anche nei lavori più recenti presentati nell’ambito della moda – caratterizzano queste sculture. Ad imporsi, inoltre, è il tema dell’attesa e dell’immobilità, con il tempo che si distanzia dalla percezione ordinaria. Eppure, laddove una volta si vedevano corpi e volti ancorati alla realtà, in questo caso si osservano le testimonianze di ciò che sono stati i corpi e i volti che, per breve o lungo tempo, l’hanno circondata e ispirata.
Nel complesso – anche attraverso la terza stanza che presenta una serie di incisioni su ceramica, dove per la prima volta i corpi appaiono quasi completi – le rappresentazioni fisiche appaiono forse troppo nobili e sinuose per essere reali e appartenenti al nostro periodo tumultuoso, dove più che esistere, è necessario semplicemente sopravvivere. Sono corpi, allora, che esprimono invece un ideale desiderio di serenità.
Nella moltitudine di frammenti, come detto, non appare mai un elemento completo. Proprio in questa costante segmentazione, c’è forse una ricerca, velata, della necessità di accomunare e condividere; di legare e di unire. Beecroft, manipolando l’anatomia femminile, sembra dire di volere esistere, senza troppo clamore, senza fronzoli, senza la necessità di strategie particolarmente spettacolari. Questi corpi non hanno nulla da rivendicare né da promuovere, e proprio per questo il loro impatto è intenso e, al contempo, intimo. In questo senso, l’artista si propone come demiurga non più di un universo patinato, ma di una comunità di persone ben più piccola, limitata, forse idealizzata, ma a misura di uomo e di donna; completamente anonima, dunque universale.