Che cos’è FOG e perché si chiama così?
L’idea del festival nasce dalla volontà di avere anche questo oltre alla stagione. Non c’è un cambiamento di rotta rispetto alle linee guida ma semplicemente abbiamo cercato d’individuare dei progetti fuori formato. Il festival esaspera alcune tematiche che utilizziamo, come il rapporto tra spettatore e performer, accentua la dimensione esperienziale, ma è anche un tentativo di lavorare su formati e contenuti più sperimentali.
Il nome FOG richiama, da un lato, in maniera ironica e romantica l’immaginario milanese e, dall’altro, sottolinea la porosità dei linguaggi e il lavoro sulla percezione. La nebbia permette di entrare e uscire da uno stato ma, allo stesso tempo, è anche una condizione in cui le cose appaiono improvvisamente per come sono, c’è anche tutta la dimensione della sorpresa e del rischio – dello stupore. Ci sembrava che queste fossero anche le caratteristiche della nostra progettualità.
Interessante sottolineare il fatto che non solo FOG porta a Milano degli spettacoli, ma ne produce anche.
Sì, la grande forza è il fatto che FOG è un festival di produzione e questa è un po’ un’anomalia in Italia. Coproduce anche in modo consistente a livello internazionale e questo sarà ancora più evidente dalla prossima edizione, ma già in questa ci sono ad esempio la coproduzione di Motus, di Strasse o di Painé e di Biondillo e tante altre. A tutti gli effetti è un festival produttivo, che si mette a tavolino con gli artisti e con gli altri operatori (prevalentemente internazionali) e co-prduce.
A Milano ci avevi abituati a Uovo, che però era un festival itinerante, che cosa si porta dietro FOG di quell’esperienza?
Prima di tutto ha una differenza e cioè che FOG rispetto a Uovo lavora anche molto con la parola e con il testo, mentre Uovo era un festival prevalentemente visivo. FOG però si porta dietro uno spirito, che era quello più irriverente e attento alla curiosità e alla scoperta di artisti mai venuti in Italia o a Milano. Invitare i National Theater of Oklahoma, che appunto non erano mai stati a Milano, va in questa direzione. Si porta anche dietro la capacità di tenere insieme grandi nomi della scena mondiale ed emergenti.
Sei stato nominato curatore per la sezione teatro, danza, performance, musica dalla nuova presidenza di Stefano Boeri, quali sono i progetti per il futuro?
Con questa nuova nomina si riconosce all’intera Triennale un settore disciplinare legato alle arti performative che non si limita solo al teatro, ma lo immagina come parte di una squadra fatta dai curatori e dal presidente che lavorano attraverso una progettualità comune, che poi può essere declinata, ma che permette di immaginare progetti più complessi e articolati. Quindi non si parla di entità separate ma di un unico grande centro della produzione contemporanea. È troppo presto per parlare di programmi però se pensiamo solo al campo performativo artisti come Jan Fabre possono essere ad esempio letti a partire da diversi punti di vista, da quello performativo-teatrale a quello espositivo, piuttosto che video-cinematografico.