Palazzo Merulana / Roma

30 Luglio 2018

Le vicende urbanistiche di una città sono spesso storie di strappi e ricuciture. È il caso dell’ex palazzo umbertino dell’Ufficio d’Igiene in Via Merulana, a Roma.
L’edificio, riqualificato per opera della Fondazione Cerasi, viene restituito al quartiere colmando lo svuotamento del vicino Palazzo Brancaccio che ospitava le storiche collezioni del Museo d’Arte Orientale, ora riunite a quelle del Museo delle Civiltà all’Eur. I collezionisti Elena e Claudio Cerasi hanno recuperato un luogo dalla storia complessa e per certi versi buia: la ricostruzione filologica dell’edificio ne ha ripristinato le campate – sono nuovamente visibili i prestigiosi interni dei saloni a doppia altezza – i frammenti originali delle colonne per anastilosi, le volte a crociera e il pavimento di travertino e marmo rosso sul modello del disegno originale rinvenuto. Il palazzo ospita la Collezione Cerasi costituitasi attorno ai Piccoli Saltimbanchi (1938) di Donghi e divenuta un nucleo fortemente coerente nelle scelte orientate verso l’arte romana fra le due guerre, di cui vi sono rappresentate pressoché tutte le tendenze (Scuola di via Cavour, Realismo magico, Tonalismo per citarne alcune). In un saggio del catalogo relativo alla mostra “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943” (Fondazione Prada, Milano) che ha coinciso sorprendentemente con l’apertura di Palazzo Merulana, intitolato “La Scuola Romana e l’impegno politico” Alberta Campitelli mette a fuoco il periodo dopo il 1933 e il cristallizzarsi di quella volontà nel rifiuto al rappel à l’ordre invocato dal regime, che si tradusse in un senso di evasione onirica formale. La collezione Cerasi è un esempio fra i più rari che rende visibile quel passaggio dal ritorno all’ordine al suo collasso. Sia al piano terra che al piano nobile l’ordinamento è raffinato e pertinente, acuto nei riferimenti e negli accostamenti stilistici. Al centro vi è la figura umana – costretta a una disperazione silente e celata, quasi metafisica – il connettore attraverso cui è possibile leggere la disposizione dei capolavori fra i quali spiccano i due Capogrossi Gita in barca (I canottieri; Partenza in sandolino) (1933) e Ballo sul fiume (1936 ca) testimoni di quello studio sul colore come “sostanza della spiritualità moderna” (Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli e Roberto Meli, Manifesto del Primordialismo Plastico, ottobre 1933), il magico isolamento di Casorati ne L’idiota (1932) e Lo studio (1934); i tonalismi in cui è rintracciabile l’estetica queer in Pugile (1937) e Giovane seduto (Ritratto di Romeo Lucchese) (1934) di Guglielmo Janni; o Ritratto di ragazzo in blu (1934) di Mafai e Ritratto di Andrea Pirandello (1940) di Pirandello entrambi marcatamente introspettivi. La preziosità della collezione è asserita dai quattro dipinti del gruppo dechirichiano Bagni misteriosi (1934-1960) esercizio mnestico suggestivo nato per illustrare il libro Mythologie (1934) di Jean Cocteau. Un altro nucleo importante (la Collezione Cerasi ne possiede il maggior numero) sono le sculture anarchiche e primitive di Antonietta Raphaël che, collocate al piano terra del palazzo, si possono osservare dalle vetrate a tutto sesto o all’interno nelle pause gourmet del Caféculture. Superata la prima saletta del piano terra, c’è un momento-rivelazione: Primo Carnera, campione del mondo (1933 ca) di Balla – dipinto sul retro della precedente futurista Vaprofumo (1926 ca), peculiare per le due aperture della tavola in alto a mo’ di narici – sintetizza l’anima della collezione in quanto momento di transizione verso una nuova modernità, quella dei media come il cinema, la moda, i rotocalchi, che ci restituiscono una realtà riproducibile e filtrata. L’iconografia retinata del pugile costituisce l’unicum e il carattere distintivo della collezione.

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