Impiegare il tempo sui bus romani è quasi d’obbligo. Seduto sull’881 che percorre via Gregorio VII e scivola a fianco delle possenti mura di difesa di Città del Vaticano, svogliatamente scorro su YouTube video di gattini arrampicatori e frammenti di “Milleluci”, programma degli anni Settanta presentato da Raffaella Carrà e Mina. Compare un suggerimento: un’intervista a Mario Mieli del 1977 a “Come Mai”, programma in tarda serata su Rai Uno. Agghindato come una buona signora della borghesia milanese, Mieli – filosofo, fondatore di F.U.O.R.I. e dei Collettivi Omosessuali Milanesi – nella breve clip definisce “normalità demenziale” la convenzione secondo cui gli uomini devono necessariamente vestire i pantaloni, mentre le donne sono libere di indossare abiti maschili; parla di transessualità, omosessualità diffusa, “cripto-checche”, complicando un ritratto lineare circa le preferenze sessuali e le distinzioni di genere; ricorda, profetico, la fluidità. Forse è un approccio che risente di residui postmodernisti, mi dico, eppure la binarietà appare di colpo troppo semplice e la dualità non è più strategia di descrizione efficace.
Sono diretto a Villa Carpegna, sede ottocentesca degli uffici e dell’archivio della Quadriennale di Roma, per prendere parte a “L’artista come curatore, il curatore come artista”, primo workshop di Q-Rated, organizzato dalla neo-direttrice Sarah Cosulich e dal curatore Stefano Collicelli Cagol. L’intento dell’iniziativa, che fa coppia con il programma Q-International, risente della volontà di ricollocare la fondazione romana al centro della pianta urbana del sistema dell’arte italiano: incentivare e supportare la produzione artistica e la circolazione di riflessioni e temi attuali, tramite il confronto con voci estere.
Mi ritrovo all’ombra di pini marittimi ricurvi, assieme a curatori e giovani artisti, con cui condividerò una maratona di tre giorni. Una buona mappatura che attraversa l’Italia da Torino a Palermo, incrociando differenti situazioni e condizioni, alcune più esterofile, altre più determinate dalle urgenze locali. Con noi tre tutor: Pierre Bal-Blanc, curatore performativo francese – forse un curatorial artist, secondo le parole di Jean Hoet del 1992[1] –; James Richards, artista gallese, autore dell’immersiva installazione Music for the Gift presso Santa Maria Ausiliatrice durante la Biennale d’Arte del 2017; Elena Filipovic, curatrice di Kunsthalle Basel, colei che a tale marasma di riflessioni ha dato un certo impulso con la pubblicazione del volume The Artist as Curator: an Anthology – un agile itinerario attraverso le mostre più salienti ideate da artisti, a partire dal secondo dopoguerra.
È l’estroso Bal-Blanc a dare avvio al workshop. Con piglio da oratore e presenza fisica, è il protagonista della prima giornata: un viaggio che parte dai teatri anatomici europei per rifocalizzare l’attenzione sul corpo e alimentare l’autocoscienza. Secondo il curatore, la mostra deve essere riorganizzata come incontro di corpi, un atteggiamento tutto francese che reagisce all’opposizione cartesiana tra materia e spirito o all’autonomo occhio di O’Doherty e recupera le parole di Maurice Merleau-Ponty. E di più, pare che Bal-Blanc rispetti l’etimologia del suo ruolo. In “Draft Score for an Exhibition” – progetto pensato per la candidatura alla curatela della 7a Biennale di Berlino, poi risultato non vincitore – è il corpo del curatore a essere luogo per la mostra, dunque spazio espositivo: Bal-Blanc performa, davanti alla commissione giudicatrice, alcune delle opere individuate come punti di partenza della sua proposta. L’opera come cristallizzazione di un gesto, la mostra come spartito, ripetibile, rimangono cifre della sua ricerca e tornano in “Collective Exhibition for a Single Body”, presentata al Museo Archeologico del Pireo ad Atene, come parte di documenta 14. Eppure, nonostante tendenze biopolitiche o, ancora, l’idea che non ci sia più spazio per la creazione, ma sia l’adozione a caratterizzare l’attività artistica del Ventunesimo secolo, alla domanda: “Do you consider yourself an artist?” Bal-Blanc fornisce una risposta negativa. E non potrebbe essere altrimenti. Da un lato, incorporando in sé le opere se ne prende cura (nel senso di taking care); dall’altro, se la delega è emblema dell’epoca in cui viviamo allora l’attività curatoriale è pervasiva.
James Richards, che anima il secondo giorno di lavori, percorre simili premesse e, tuttavia, conclude con affermazioni contrarie: l’editing di found footage – con cui compone i suoi video, sospesi tra atmosfere psichedeliche e geografie interiori – è il primo strumento di curatela ed è, tuttavia, una pratica artistica. Come se la selezione (e quindi l’adozione, il prendersi cura, il rimaneggiare qualcosa di preesistente) fosse identica alla creazione e non ci fosse alcuna distinzione tra un momento demandato all’artista e uno successivo di pertinenza del curatore. Il collasso dei ruoli – seguendo le affermazioni di Boris Groys in Multiple Authorship (2006) – garantirebbe all’artista, sembra sostenere Richards, la creazione di strutture di potere nella gestione dello spazio espositivo, ampliando il proprio stesso ruolo a discapito delle pretese del curatore.
Elena Filipovic tenta alcune risposte, durante l’ultima giornata di workshop. La curatrice descrive le attività apparentemente marginali di Marcel Duchamp, facendone un simbolo dell’erosione del confine tra i due ruoli sottoposti ad esame. Pare, però, che il deterioramento avvenga in un’unica direzione: l’artista distoglie lo sguardo dall’oggetto discreto e avverte lo spazio espositivo come latore di senso e legittimità. Diventa produttore dell’apparato di lettura e ricezione, arbitro – come nel minuscolo museo portatile della Boîte-en-Valise (1941) –; quasi a dire che l’arte è tale solo se esposta. Sono i prodromi della storia, ancora parzialmente da scrivere, dell’artista come curatore, delle preoccupazioni nei confronti della mostra come agone politico e come strategia di esternazione di una ricerca che trova nei dispositivi di allestimento ulteriori spazi di movimento e azione. Mi rimane l’amaro in bocca quando, alla medesima domanda fatta a Bal-Blanc – quella riguardo il considerarsi artisti –, Filipovic ribadisce i limiti precisi del mestiere del curatore. È parsa quell’indulgenza novecentesca nei confronti degli artisti – scapestrati, liberi di agire negli interstizi e di ridefinire a proprio piacimento metodi e risultati del lavoro –, autorizzati a farsi curatori senza che sia scalfita l’autonomia del loro ruolo. Per contrasto, il curatore ha compiti circoscritti in maniera precisa, è uno tra gli addetti ai lavori – per alcuni, pure, parassitario[2]. Quasi come se il primo potesse tranquillamente vestire i panni del secondo, costretto invece a indossare lo stesso capo, senza soluzione di continuità.
Così, sul treno che mi ha riportato a Torino, con la mente ancora pesante dalla maratona romana, ho ripensato a Mario Mieli e all’intervista ascoltata per caso il primo mattino. L’opposizione tra artista e curatore – come quella tra donna e uomo, omosessuali ed eterosessuali – comporta una perdita della ricchezza delle sfumature. Del resto, non si capisce perché avvallare le sperimentazioni dell’uno e circoscrivere quelle dell’altro. Consentire al primo di indossare gonna e pantaloni e costringere, invece, il secondo a evitare abiti non consoni. Nel 1977, Mieli sosteneva che tutti fossimo transessuali – o meglio, che in ciascuno di noi ci fosse tanta parte maschile quanta femminile –, sarebbe forse ora di ricordarlo nella diatriba tra artista e curatore.