Sirio Luginbühl Palazzo Pretorio / Cittadella

16 Luglio 2018

Sirio Luginbühl, sperimentatore dal nome leggendario, veronese di nascita ma padovano d’adozione, proviene da una famiglia colta, il nonno svizzero è pastore protestante, la nonna è istriana di origine ebraica. Arriva a Padova dalla guerra e si laurea in geologia ma, oltre alla terra, ama visceralmente l’arte e il cinema, che nel capoluogo veneto durante gli anni Sessanta e Settanta sembrano sprizzare vita da tutti i pori. Luginbühl collabora prestissimo con il Gruppo N, conosce Sylvano Bussotti, frequenta Nanni Balestrini – che lo introduce al cinema sperimentale – e diventa amico di Vedova che invece lo conduce verso l’impegno politico nell’arte e il gesto pittorico applicato al film. Produce non solo film sperimentali, ma discorsi intorno allo sperimentalismo, scrivendo antologie fondamentali, dando vita a cooperative, rassegne, incontri.


La mostra di Cittadella, curata da Guido Bartorelli e Lisa Parolo, è organizzata a conclusione del progetto di digitalizzazione e preservazione del fondo filmico dell’autore – condotto dal Laboratorio La Camera Ottica dell’Università degli Studi di Udine e finanziato dal Centro Sperimentale di Cinematografia (Cineteca Nazionale) – donato dalla moglie e collaboratrice Flavia Randi e dalla figlia Cecilia.
Il tentativo è quello di dispiegare orizzontalmente una periodo cruciale (dal 1968 al 1971) del corpus filmico di Luginbühl, rinunciando alla sguardo focalizzato e assoluto previsto dalla proiezione in sala, ma guadagnando le possibilità offerte dallo spazio espositivo.
L’impianto curatoriale chiarisce fin da subito l’intenzione di definire i confini tra cinema sperimentale e videoarte, esibendo immediatamente il dispositivo filmico e riproducendo accuratamente il contesto di proiezione originario: pellicola, proiettore 16mm, schermo, poltrone e cineoperatore.
Amarsi a Marghera (Il bacio) (1970) è la ripresa di un happening programmato: a due ragazzi di bell’aspetto, sconosciuti l’uno all’altra, viene richiesto di spogliarsi e baciarsi sotto lo sguardo analitico di un gruppo di comparse attente. Il paesaggio riarso, una crosta brulla cotta dal sole di luglio, è il terreno contaminato intorno al polo petrolchimico di Marghera. Terra morta ma ancora assassina, mai sanata dalla lirica messa in inquadratura del geologo Luginbühl, pugnalata una seconda volta dal pennarello rosso del regista dopo lo sviluppo e la stampa – post-produzione moviola -less operata al chiaro di una finestra di casa. Eco antonioniane (l’amore nel deserto di Zabrinsky Point, 1970), interventi pittorici, cromatismi ricorrenti e prassi produttiva che si situa tra land art, azione, teatro sperimentale uniti alla sensibilità per i problemi dell’ambiente e a una lucida tenitura formale, sono i tratti somatici della filmografia presentata, già ravvisabili nella superficie della prima opera. Amarsi a Marghera è l’unico film presentato al piano inferiore dove sono mostrate alcune pellicole originali dell’archivio privato di Luginbühl (custodito e organizzato da Flavia Randi, sua compagna e collaboratrice), foto di scena di Antonio Concolato (spesso anche operatore di ripresa dei film del regista) e tracce delle attività laboratoriali condotte da Home Movies di Bologna, la cui restituzione performativa è demandata al finissage della mostra.
Tutte le opere al piano nobile sono invece digitalizzazioni. I film sono stati restaurati e trasferiti in video con accuratezza tecnica e critica, avvalendosi di materiali contestuali (pubblicazioni, appunti e scritti privati, interviste) e delle varianti digitali già esistenti per arrivare a versioni rappresentative delle opere.
La disposizione delle opere al piano sfrutta le caratteristiche ottiche dello spazio e gratifica il visitatore con una visione prospettica e un sottofondo musicale diffuso. Le prime immagini che incrociano lo sguardo di chi sale sono quelle di Valeria Fotografa (Playtime) (1970), ironica inversione della situazione fotografo-modella di Blow up (1966) di Antonioni, dove a fotografare è una giovane donna e l’oggetto dei suoi scatti, celato per la prima parte del film, è un ragazzo con indosso null’altro che una mascherina rosa shocking, un po’ di rossetto sulle labbra sorridenti e un paio di ventagli a nascondere il pube. Montaggio rapido, macchina nervosa come la colonna sonora che struttura il film, 1970,  degli Stooges.
Nella seconda sala si trova Vibratore (1968), un successione di close-up del viso di una bella ragazza, a registrare la mutevole fenomenologia emotiva generata dal passaggio dello strumento ricreativo del titolo su varie zone del corpo. Aree sempre nascoste, ma ben dichiarate da una lavagnetta, che segna anche la “suture” tra un’inquadratura e l’altra. Un bizzarro “effetto Kuleshev” dove il trigger è incorporato dal film e mai manifesto.
Dopo la sala dedicata al piacere, torna il dovere rivoluzionario: La bandiera (1970) rappresenta l’avanzare dell’ideologia, incarnata dalla marcia di un giovane che porta avanti il film nonostante la tenace insidia della borghesia, subdola minaccia in forma di donna che, delusa dal fallimento sessual-capitalistico, condanna a morte l’oggetto del suo desiderio. Esplode un colpo di pistola, ma soprattutto attaccano di nuovo gli Stooges con Down on the streets. Nel sessantotto non si muore, si balla.
Con Festa grande di maggio del territorio padovano consacrato al cuore di Maria santissima (1969) si ritorna alla leggerezza ironica dei baci che intacca il perbenismo provinciale descritto dal monumentale titolo. Rinfrescante erotismo rivoluzionario che “mette a nudo” la goffaggine dei corpi e degli sguardi contratti e misurati dei benpensanti.
Il sorriso della Sfinge (1971) è la conclusione lirica e poetica di una mostra espansa e densa allo stesso tempo. L’uso della “sovrimpressione” è il registro formale che il film svolge. Una donna-trans, ibridata da un fallo prostetico, da mollemente stesa si siede attenta, a ricordo dei leoni di marmo inseriti da Ejzenstejn ne la La corazzata Potemkin (1925). Il dispositivo del “montaggio delle attrazioni” del regista russo muta di stato, gassoso e impalpabile attraverso la retorica del super-impose. “L’attrazione trans”, omaggio alla warholiana Candy Darling, è sovrapposta a una serie di accadimenti filmici: la sagra di Sant’Antonio da Padova, le cupole della Basilica, ma soprattutto le statue di Prato della Valle, che stringono in un abbraccio tenero il corpo nudo ed evanescente dell’attrice. La delicatezza del discorso filmico e paesaggistico e la soggettività in filigrana riportano alla memoria immagini e frammenti di alcuni film di Marguerite Duras, come Cesarée (1979) o Il dialogo di Roma (1983).
Corpi, paesaggio e materia filmica si stratificano senza rigori strutturali in una piena e matura liberazione figurativa dell’immagine, anticipando di parecchi decenni temi come l’antropocene e  le questioni legate al gender, senza il peso di pretenziosi apparati discorsivi. La queerness praticata da Luginbühl è filmica, un ibrido tra pratica sperimentale, azione artistica, pittura e land art destinato a diventare modello dell’essere contemporaneo.
La mostra è politica da un punto di vista sia contenutistico che formale: tratta di contestazione giovanile, liberazione sessuale e riattiva gli apparati mediali. Soprattutto, rende visibile un patrimonio culturale nel suo luogo di produzione, chiamando in causa complesse relazioni memoriali con il paesaggio, i corpi che lo abitano e gli accadimenti sociali, restituendo una traccia identitaria reale e non stereotipata, unico antidoto al paradigma dell’indifferenziazione.
Come afferma lo stesso Luginbühl nell’unica intervista video presente nella mostra: “finchè ci saranno delle persone che si meravigliano davanti a un’immagine, ci sarà un grande futuro”.

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