Esattamente dieci anni fa la Nomas Foundation si offriva alla scena artistica della Capitale, distinguendosi per la vocazione “nomadica” e processuale della sua attività e per un’idea allargata di cultura, condivisa e condivisibile. La Fondazione ha ospitato negli anni decine tra mostre, workshop, incontri, laboratori, reading, seminari, residenze, pubblicazioni, che hanno contribuito ad alimentare la sua mission, rivolta a un’espressione artistica socialmente sostenibile e inclusiva. Se nella prima mostra del 2008 lo sguardo si introiettava nello spioncino della cella di Aldo Moro (Francesco Arena, 3,24 mq, 2004), oggi lo stesso sguardo si moltiplica in un percorso labirintico e giocoso che scardina il concetto di sistema (“Per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?”, un progetto di Gabriele De Santis, Alek O., Santo Tolone). Cosa è cambiato in questi dieci anni?
Molte trasformazioni, ma forse la più significativa è l’interazione con l’università: Nomas è sempre più un centro di ricerca scientifica. La sperimentazione dei primi anni si è ampliata fino a includere negli ultimi tre anni aree di ricerca quali l’archeologia, il cinema, l’antropologia. È maturato un progetto diverso senza una curatela stabile.
Come si sono intersecate le scelte della collezione privata con le attività della Fondazione?
Le scelte della collezione hanno sempre influenzato quelle della fondazione. Tutti i più importanti progetti sono partiti dalla collezione, come quelli di Francesco Arena, Rossella Biscotti, Luca Vitone, Else Leirvik, Michael Dean, Etienne Chambaud, Valerio Rocco Orlando, Dove Allouche, Gabriele De Santis, Chiara Camoni, Gianni Politi, Dan Rees, Sresha Rit Premnath, Domenico Mangano e Marieke van Rooy, ma anche da riflessioni personali come per Monica Haller e Alfredo Pirri.
L’attenzione alla transdisciplinarietà rimane un vostro punto di forza. Quali i progetti a cui siete maggiormente legati?
Tra gli ultimi, il magnifico “Sergei Eisenstein. The Anthropology of Rythm” ha rappresentato un’apertura verso un linguaggio altro come il cinema che in realtà è essenziale nella pratica visiva contemporanea. Dentro Nomas pulsa naturalmente un’attitudine allo sconfinamento, all’approfondimento.
In tal senso si pongono anche i vari cicli dedicati alla performance, al film, alla pittura, al teatro, alla scultura curati da Ilaria Gianni e Cecilia Canziani tra il 2010 e il 2014, nonché la prima edizione di KizArt, all’interno di Digitalife. Vuoi farne cenno?
I cicli sono stati un’esperienza seminale per Nomas e Roma: nel tempo, quegli artisti hanno maturato percorsi all’interno di grandi musei, biennali, premi internazionali. KizArt è invece un giovanissimo progetto, un festival di videoarte per bambini da 0 a 14 anni: in attesa della seconda edizione nel 2019, quest’anno il 21 ottobre ci sarà una giornata KizArt all’interno della rassegna “Videocittà” presso il Museo MAXXI.
Le mura della Fondazione non sono mai state vincolanti. Nel 2016 “Par tibi, Roma, nihil”, ad esempio, ha proiettato parte della collezione nel suggestivo scenario del Foro Romano e Palatino. Quali i progetti futuri?
“Par tibi, Roma, nihil” segna una cesura, un’esperienza di sintesi del pensiero di Nomas in relazione a questioni di ordine storico, economico, sociale, artistico e filosofico. Per Nomas, l’arte contemporanea è una metodologia per costruire comunità, un’esperienza di self-education, uno strumento epistemologico di analisi critica, un dispositivo politico. La fondazione solleva questioni e costruisce dubbi: questa fragilità intellettuale e questa assenza di verità costituiscono la vera forza di Nomas. Il prossimo anno ospiteremo un progetto frutto di una lunga ricerca legata alla linguistica.