La conferenza stampa della mostra “That’s IT!” inizia puntuale, alle 12.00; un giro di firme, identificazione, distribuzione delle cartelle stampa e dei cataloghi, e tutti i giornalisti sono fatti accomodare nella saletta sotterranea del MAMbo di Bologna. “Millennials” è una parola che viene ripetuta spesso per la durata della conferenza: usata per delineare l’età degli artisti partecipanti (dal 1980 al 1992), coniugata per spiegare la condizione dei “giovani” italiani, declinata per ribadire la natura generazionale della mostra collettiva in questione.
Roberto Grandi, presidente di Istituzione Bologna Musei, addirittura azzarda una teorizzazione empirica del termine “post-millennial”, utilizzato con una certa tensione per rassicurarci su come “That’s IT!” sia una mostra di grande importanza, poiché ultima del suo genere. Ultima, a parer suo, perchè i post-millennial si ciberanno subito delle nostre (?) ceneri, lasciandoci questa mostra come unica, utopica testimonianza della nostra esistenza artistica.
Abbagliati da tanta mistificazione prodotta da un presidente di un’istituzione museale, io e i miei colleghi millennial varchiamo le porte di una mostra che non ha ancora inaugurato. Il biliardo di Roberto Fassone (Egidio, 2018), l’insediamento sci-fi di Alessandro Di Pietro (Felix_Rick Sanchez e Felix_John Thackery, 2018) e l’involucro plastico di Marco Giordano (Come fare un buco nell’acqua, 2018) fanno da cornice a una foto di gruppo scattata appena cinque minuti prima dell’apertura delle porte della sala delle ciminiere. La sala in questione, spogliata di ogni struttura architettonica, ospita la maggior parte degli artisti in mostra (57 per la precisione).Come anticipato dal curatore Lorenzo Balbi – e dal sottotitolo “Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal confine” – la mostra respinge la facile catalogazione delle geografie, interrogandosi su come e quando un artista possa essere definito italiano: le presenze di Petrit Halilaj, Orestis Mavroudis e Ian Tweedy sono in parte risposte a questo interrogativo. Ciò detto, la regola base della mostra rimane visibile in tutta la sua semplicità: la data di nascita dell’artista deve essere compresa tra gli anni 1980 e 1992. Al di fuori di questo criterio, si ritrova un’assenza di presupposti formali e teorici in favore ad un’apertura a dialoghi ed interventi soggettivi – un plausibile richiamo a Szeemann, per chi vorrà leggervi riferimenti all’attitudine e all’auto-rappresentazione nell’aspetto curatoriale.
Gli artisti sembrano aver reagito bene al compito assegnato: ritagliarsi uno spazio e presentare un’opera che rappresenti il proprio lavoro sono processi che indubbiamente si portano dietro un carico notevole di difficoltà e incertezza. Un sorriso ad honorem va al guizzo di furbizia e lungimiranza che ha spinto molti degli artisti a un isolamento volontario, occupando aree al di fuori della sala centrale, o studiando sistemi di supporto a servizio della mostra stessa – come nel caso del display realizzato dal collettivo Parasite 2.0 (Audience Infrastructure, 2018), il palco di Adelita Husni-Bey nel dipartimento educativo (Palco dell’Estinzione (prototipo), 2017), o l’audio ToonsTune (Four Pathetic Movements), 2016 di Diego Marcon che si insinua tra le porte dell’entrata del museo.
La sala delle ciminiere è piena, occupata da opere che variano per dimensione: dalla monolitica installazione di Ludovica Carbotta (Falsetto, 2017-18) in cui uno Stonehenge di plastica è catapultato dall’iperuranio al centro della sala, fino all’effimera interferenza di Alessio D’Ellena che ha realizzato la font utilizzata nell’identità e nel catalogo della mostra. Opere di grande scala come il video sospeso a mezz’aria di Invernomuto (Vers l’Europa, Terra Incognita, 2017), i pannelli quasi-déco di Benni Bosetto (Allegro ma non troppo, 2018) che si integrano alle finestre aperte sul piano superiore del museo, o l’ingombrante installazione di Emilio Vavarella (The Google Trilogy – 1. Report a Problem, 2012) che raccoglie stampe fotografiche di glitch digitali in Google Maps, predominando in un certo senso la veduta della mostra. D’altro canto, questa subordinazione di certi lavori nei confronti di altre non è da tradursi in un ordine gerarchico di importanza: interventi intimi come Ruffiana la Mafalda (2017) di Beatrice Marchi, installato nel gomito della scalinata, offre una lettura fugace di un disegno inciso su vetro; similarmente, Ground-Ground (2017-18) di Giulia Cenci abita un interstizio della medesima scalinata con forme fossili, elementi organici e resine epossodiche.
Sebbene molti dei lavori presenti risultino slegati l’uno dall’altro – disomogeneità che risulta ancor più evidente se analizzata tra opere fisicamente confinanti – sembrano ponderati i dialoghi come quello tra Sniglar II (2018) di Guendalina Cerruti e DADA POEM (to a fearless female) (2018) di Lia Cecchin: due manifestazioni distinte della relazione tra oggetti di massa e identità.
Come già detto, le opere in mostra non potrebbero che essere più diverse l’una dall’altra (in teoria, e forma), ma non per questo vi è ragione di lamentare la mancanza di organicità nel progetto curatoriale. Piuttosto, la reale criticità di “That’s IT!” è la iper-problematizzazione del concetto di “giovane artista” in Italia, cioè un costrutto che spaventa e confonde le istituzioni, e che viene indagato quasi unicamente per mezzo di mostre analoghe a quella in questione: didascaliche, affollate, totalizzanti; mostre “da disperati” – come un artista ha bisbigliato mentre gesticolava per illustrarmi la composizione delle camerate dell’ostello che ha ospitato il 90% degli artisti in mostra.