“Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?”, chiese Kublai Khan. “Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra”, risponde Marco Polo “ma dalla linea dell’arco che esse formano”. Kublai Khan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: “Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa”. Polo risponde: “Senza pietre non c’è arco”.
Il dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan è uno degli scambi più evocativi di Le Città Invisibili di Italo Calvino e sottolinea come la struttura (in questo caso l’arco) sia un principio ordinativo delle cose (il mattone). Questo intenso scambio di battute è l’incipit del Manifesto redatto dalla teorica e curatrice Chus Martínez, presentato in apertura di “The Waves of the Oh!s and the Ah!s”, primo incontro di Spheric Ocean, il progetto di ricerca di tre anni sempre a cura di Martínez sostenuto da TBA21–Academy.
La piccola maratona di lecture e performance si svolge all’interno della Chiesa di San Lorenzo, antico monastero dalla storia piuttosto travagliata, sconsacrato circa un centinaio di anni fa. La struttura oggi è stata acquisita dalla fondazione Thyssen-Bornemisza Art Contemporary (fondata da Francesca Von Habsburg) che ne ha fatto la sede della sua organizzazione parallela TBA21-Academy (fondata da Von Habsburg e Markus Reymann), un centro di studi interdisciplinare rivolto ad artisti, scienziati, pensatori interessati ad approfondire, attraverso le lenti dell’arte, l’oceano, le sue peculiarità e le problematiche ad esso correlate.
Martínez – nominata “expedition leader” per i tre anni di ricerca venturi – interpreta The Ohhs! The Ways to Complain attraverso un talk che ha molto più a che vedere con una performance. Fluido, magnetico e senza dubbio denso di spunti, il manifesto contiene alcuni passaggi che poi risulteranno essere la chiave di volta per comprendere la due giorni di interventi. La curatrice utilizza l’oceano come una metafora sia per la struttura (ovvero l’arco per Kublai Khan) che per la sfera pubblica. Riferendosi inizialmente alle teorie post-strutturaliste e abilmente ricollegandosi agli ultimi ragionamenti relativi per certi versi alla tanto dibattuta social engaged art, Martínez afferma che l’oceano è il più grande spazio pubblico esistente, un vasto assemblaggio di vite, uno strumento per parlare di libertà e di collettività.
È su questo continuo riferimento all’organismo che prendono luogo sul palco rotondo in cartone al centro della navata di San Lorenzo, gli interventi del tutto interdisciplinari che strutturano il programma. La ricercatrice Marah Hardt approfondisce la sessualità di alcuni esseri viventi marini, non risparmiando racconti coloriti dei più singolari metodi di accoppiamento, mentre la biologa marina Diva Amon fa riflettere sulla scarsa conoscenza degli abissi, in cui vivono specie di animali poco o per nulla studiati.
Georgia Sagri – artista e performer greca che lo scorso anno ha contribuito a rendere vivo The Parliament of Bodies a Documenta 14 – sviluppa una performance collettiva chiedendo ai partecipanti di immedesimarsi in un’onda e lasciarsi trasportare in un flusso condiviso, alla cieca; le performance di Mathilde Rosier e Donna Kakuma si ricollegano ancora una volta all’oceano, utilizzando l’elemento unicamente come punto di partenza per azioni ermetiche in cui il suono va ad intersecarsi con il movimento. Mentre gli ospiti sorseggiano un drink a base di acqua e limone tinto di un colorante alimentare blu, una ballerina avvolta dalla testa ai piedi in una tuta color cobalto si muove prima in maniera rilassata poi spasmodica in una performance ideata da Claudia Comte sulle note di una musica elettronica di Egon Elliut. Si scoprirà dopo che la prova fisica è stata effettuata da Cecilia Bengolea, ballerina e performer argentina che poco dopo ha coinvolto uditori e relatori in un ballo sfrenato basato su movimenti archetipici di danze di strada – rintracciati da Bengolea nel corso dei suoi viaggi in Jamaica.
Nel suo manifesto Martínez d’un tratto si chiede quello che ci stiamo domandando tutti: “Perché siamo qui a parlare dell’oceano?” La risposta che fornisce è “Perché siamo interessati alla nuova struttura dello spazio pubblico, che non è solo linguaggio e consenso, ma è anche una trasformazione della democrazia”.
Il contributo più toccante è di Christina Tony e di due membri della comunità dell’isola di Manam, della Papua Nuova Guinea. La testimonianza ha riguardato l’emergenza ambientale che sta coinvolgendo l’arcipelago e, in particolare, l’isola. Compagnie estere si sono appropriate di terreni appartenenti alla popolazione locale, causando vari danni all’ecosistema come l’innalzamento delle acque e l’erosione del suolo. L’emergenza da ambientale è diventata umanitaria, in quanto sta mettendo a repentaglio il sostentamento delle comunità che da secoli vivono in maniera simbiotica con la terra e il mare che li circondano. L’intervento è stato una secchiata d’acqua [sì, acqua] gelida che ha fatto momentaneamente aprire gli occhi all’autoreferenzialità del sistema dell’arte a cui, forse, neanche la curatrice Martínez è riuscita a sottrarsi. Sebbene il suo manifesto tocchi passaggi significativi come la modifica delle narrative e della memoria stessa a causa del formato temporaneo delle mostre, il discorso cade in un’aporia nel momento in cui afferma l’importanza dei public program come modalità di riarticolazione del discorso e strumento di ripensamento della sfera pubblica. Questo perché apparentemente “The Waves of the Oh!s and the Ah!s” sembrerebbe avere poco a che fare con un simposio pubblico quanto più con un incontro a porte chiuse tra art aficionados che si ritrovano nella gradevole cornice veneziana. A dimostrazione, una lista all’ingresso regolamenta l’entrata agli addetti ai lavori entro le quattro mura della ex-chiesa che, seppure esteticamente sia agli antipodi del white cube, ne assorbe le stesse dinamiche di ordinamento e controllo; una compartimentazione esclusiva ove l’acqua, malgrado, stagna.