Lo spettatore emancipato DeriveApprodi / 2018

28 Novembre 2018

Il pensiero di Jacques Rancière ha avuto un’influenza determinante sulle posizioni della critica d’arte contemporanea. Si pensi alla querelle sulla fortunata quanto problematica “estetica relazionale” bourriaudiana o alla “svolta sociale” e all’“antagonismo” di Claire Bishop, vere e proprie messe alla prova dell’operatività critica dei testi di Rancière.
Le riflessioni dell’“indisciplinato contro-filosofo” francese, allievo di Louis Althusser, sono ormai da tempo rivolte all’individuazione delle tensioni che governano il rapporto estetica-politica, ed è in questo orizzonte che si colloca la delicata e decisiva questione della spettatorialità.
I cinque saggi che compongono Lo spettatore emancipato – volume pubblicato dalla casa editrice DeriveApprodi con traduzione a cura di Diletta Mansella – costituiscono una sorta di prosieguo al precedente Il maestro ignorante (2009) e indagano i limiti e le potenzialità della creazione artistica in quanto modalità di riscrittura del complesso palinsesto del sensibile. Riprendendo la teoria dell’“uguaglianza delle intelligenze” del dimenticato filosofo e professore francese Joseph Jacotot, Rancière ribalta la tradizionale convinzione pedagogica secondo la quale il maestro presuppone l’ignoranza dell’alunno e conserva la promessa di una futura uguaglianza. Questo assioma, che per Jacotot “è il vero modo di perpetuare la disuguaglianza in nome dell’uguaglianza”, è sovvertito dal concetto di emancipazione, da intendere come superamento delle opposizioni maestro-allievo, attivo-passivo, guardare-agire, e come presa di coscienza di un “comunismo delle intelligenze”, che significa alterazione delle gerarchie e riconoscimento di un potere spettatoriale. Le argomentazioni di Rancière, inoltre, non risparmiano quelle tradizioni filosofiche che hanno sostenuto la rigidità del dualismo pedagogico e promosso una prospettiva della “disuguaglianza”, da Bertolt Brecht ad Antonin Artaud, da Walter Benjamin a Guy Debord.
Attraverso questi strumenti teorici il filosofo francese rivela i paradossi di un’arte che si autoproclama politica, ma che impone, assieme alla volontà dell’artista, un soggetto spettatoriale pre-individuato, e aspira alla trasmissibilità e al consumo di un significato prestabilito. In questo bug prevedibile, tra espressione e comprensione, si inserisce la critica alla passività dello spettatore, da non associare alla retorica dell’interattività o a quella dello spettatore-attore, quanto a un rivolgimento radicale che intende riscrivere le coordinate del rapporto con l’opera d’arte. La possibilità di un’arte politica, a cui sembra seguire un’impossibilità del giudizio critico, risiede quindi nella sospensione degli equilibri prescritti, nell’emancipazione e nella fuoriuscita dalle opposizioni che regolano le forme di ricezione, quasi al di là delle intenzioni e dei prodotti dell’artista, per favorire un irriducibile atto di dissenso – vero nodo della proposta rancieriana – che sia costruzione di un imprevedibile “orizzonte del comune”.

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