“Il tentativo dell’ego di uscire da se stesso”, così il duo formato da Nathalie Djurberg e Hans Berg descrive “È come un viaggio nel fango e nella confusione con piccole boccate d’aria”, la mostra a cura di Lena Essling e Gianfranco Maraniello, che dopo l’esordio al Moderna Museet di Stoccolma tocca ora il Mart di Rovereto.
Più che un percorso, Djurberg descrive la successione dei lavori in mostra come una spirale; si inizia con The Parade (2011), una ricca processione di sculture di pennuti di svariate razze, che fanno da spettatori ai cinque video che hanno come soggetto le uova, simbolo di perfezione, fertilità e vita, contese fra i vari personaggi dei video; prosegue poi con una serie di video come My Name Is Mud (2003), storia di una slavina di fango, o Tiger Licking Girl’s Butt (2004); segue The Potato (2008) la caverna-utero che ospita tre video sui controversi rapporti madre-figlie e su una forzata convivenza fra un lupo e un ragazzo; continua con Worship (2016) che prende spunto dai video hip-hop, e infine con le animazioni realizzate appositamente come la fiaba gotica e surreale Dark Side of the Moon o il labirinto psichedelico di One Need not Be a House, the Brain Has Corridors (entrambi 2018) e si conclude con l’opera di realtà virtuale It Will End in Stars. Le opere di Djurberg e Berg si presentano come dei teatrini dell’assurdo in stop-motion sulle relazioni fra uomo e natura, sulle metamorfosi con il regno animale, sui rapporti familiari e sul subconscio; argomenti messi lucidamente e impietosamente a nudo dal duo. Ogni video mostra una differente variazione su perversioni, sadismo e brutalità, dove, attraverso un simbolismo semplice ma consistente, Djurberg inscena tra allucinazioni grottesche l’alienazione contemporanea e il vuoto del materialismo consumista, il tutto contornato e incalzato dalle melodie ripetitive di Berg. Sembra quasi che nell’opera di Djurberg e Berg le favole di Andersen e Grimm abbiano incontrato l’estetica del brutto di Rosenkranz e siano andati a nozze con le angosce di Munch. Ovviamente non c’è da aspettarsi un happy ending.