Mario Merz Hangar Bicocca / Milano

5 Febbraio 2019

“Igloos”: li possiamo vedere tutti insieme – ben trentuno – all’Hangar Bicocca nella mostra curata da Vicente Todolì e realizzata in collaborazione con la Fondazione Merz di Torino. Icona dell’Arte povera e metafora ossessiva nella ricerca di Mario Merz, l’igloo è la cellula abitativa elementare e archetipica che con la sua forma semisferica simboleggia l’idea della volta celeste, rivelandosi “atomo” ma nello stesso tempo “signore” dello spazio.

Nelle “navate” dell’Hangar si ricrea così, e quasi si raddoppia in estensione, il tessuto di quella “città irreale” evocata da Harald Szeemann, che riunì gli igloo fino allora realizzati in una mostra alla Kunsthaus di Zurigo nel 1985. Questa rassegna, che si estende in orizzontale come un villaggio fiabesco, si presta ad essere interpretata anche lungo una linea temporale in quanto ciascun igloo scandisce momenti diversi nel percorso di Merz. La mostra potrebbe essere leggibile anche come un calendario, un diario di lavoro e un esercizio di cronaca, esemplificato del resto dall’uso frequente di pacchi di giornali, usati sempre freschi di notizie come a inglobare il presente entro una cornice che racchiude la storia del mondo, e far interagire lo spazio esistenziale con lo spazio cosmico. Nella seconda metà degli anni Sessanta Merz si stacca dalla bidimensionalità del quadro e vedono la luce i primi igloo, come l’Igloo di Giap (1968), il quale riflette, con l’omaggio a uno dei protagonisti della guerra nel Vietnam, il suo impegno politico in quegli anni gravidi di scontri sociali e di dispute ideologiche. Da allora e praticamente fino alla fine (Merz scompare nel 2003) questo modulo fu esplorato in diversissime guise e tipologie, che vediamo finalmente dispiegarsi e interagire qui pressoché al completo: spesso costellato da scritte al neon e da numeri della serie di Fibonacci, munito ora di fontane ora di passerelle o di pontili che ci guidano verso il suo interno, ricoperto da teloni dipinti con animali preistorici o da balle di iuta, tappezzato da lastre di pietra scheggiata o da vetri assicurati alla struttura metallica con morsetti a vite, sigillato con la creta, interfoliato con materiali grezzi e con oggetti d’uso quotidiano. La rassegna si conclude idealmente nel “cubo” dell’Hangar con l’igloo più voluminoso, essenziale e spettacolare, Senza titolo (doppio igloo di Porto) (1998), la cui ossatura in tondino di ferro, che si chiude sopra un ulteriore ricovero di fascine, inalbera sulla cima un cervo impagliato, presenza che allude al tempo ciclico di una natura sacralizzata, con il quale è destinato a incrociarsi il tempo storico e calcolabile della tecnica e dell’abitare umani.

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