L’opera di Thomas Kovachevich appartiene a quella particolare declinazione del minimalismo tutta basata sulla leggerezza e l’immediatezza, incentrata, come recita il titolo del testo di Chiara Bertola nel catalogo, su “La consistenza del poco”.
“Portrait of a room”, ora in corso alla Galleria Poggiali, costituisce la seconda mostra personale in Italia dell’artista americano, nato a Detroit nel 1942. La “stanza” che ne risulta è uno spazio vibrante di una geometria volatile ed eterea, che si articola intorno a l’installazione che fa per così dire da perno, White Column (2019). La colonna in questione è suggerita e delimitata da una successione di strisce verticali di nastro cartaceo, che più che occupare lo spazio sembrano filtrarlo, lasciarlo scorrere nei loro interstizi, addirittura ventilarlo nell’invaso cilindrico che abbracciano. La stessa successione ritmata attraverso l’allineamento di bande verticali ricorre pure sulle pareti, dove prendono spazio, o forse, più esattamente, prendono aria, Polygons in Blue (2019) e Polygons in Light Orchid (2019). Si tratta di composizioni geometriche fatte con nastri di gros-grain che, a intervalli fitti e regolari, cadono dritti lungo il muro, come guidati da un binario costituito dai risvolti di un’ulteriore striscia di nastro adesivo, e vanno a tracciare una griglia lievemente aggettante, disegnando nel primo caso un quadrato azzurro e nel secondo un rettangolo viola.
Queste righe appena imbastite, appiccate con spilli come corpi di farfalle in una messa in posa perennemente provvisoria, evocano una linearità precaria, un ordine che pare sempre sul punto di agitarsi e di scapigliarsi. I tre White Cubes (2019) fatti di carta ripiegata e tenuta insieme con lo scotch, che stazionano irrigiditi sul pavimento, se occupano lo spazio con maggiore invadenza, ci vengono tuttavia incontro come arredi instabili, come bianchi fagotti di aria impacchettata pronti ad ammaccarsi e a modificare i loro contorni al primo urto. Tutto questo, secondo Kovachevich, rispecchia “lo spirito vivente della carta”, pronta a reagire ad ogni soffio di vento, ogni variazione di temperatura o di umidità, vulnerabile e resiliente al tempo stesso. Nati sul posto, commisurati alle dimensioni del luogo fisico, questi incorporei volumi e questi scivoli di strisce definiscono e stravolgono a loro volta lo spazio: è nelle intenzioni dell’artista, infatti, “afferrare qualcosa d’instabile per dargli stabilità, dotandolo anche di una nuova forza e di una nuova immagine”. Questi lavori non si pongono più, dunque, come celebrazione dell’oggetto muto e intransitivo tipico della fase più ortodossa e intransigente della Minimal art, ma si fregiano anzi di un’allure permeabile e aperta, volubile e solleticante: stimolano la nostra immaginazione e ci sussurrano le trame e le arie di una fabula geometrica ogni volta rinnovata.