Sulla scia di istituzioni importanti che hanno dedicato mostre personali a Burri e Fontana; e le mostre in galleria di Castellani e Agnetti, Hauser & Wirth dedica ben due ampi piani a Piero Manzoni. Per la prima volta il pubblico newyorchese ha la possibilità di studiarlo profondamente in un contesto quasi museale (non limitandosi a una lattina di Merda d’artista— il Manzoni versione pop). Al piano inferiore sono esposti tutti i lavori della serie Materie (1958–1963) – che dopo la morte dell’artista, all’età di 29 anni, è stata intitolata Achrome, parola francese che Manzoni sceglie per prendere le distanze e allo stesso tempo stabilire le affinità con i tanti monocromi presenti sulla scena alla fine degli anni Cinquanta. Infatti, le opere esposte variano da bianchi/beige a pacchi di carta con spago fissato con ceralacca rossa o piombo. Molti degli Achrome sono presentati nelle proprie scatole originali, su sfondi neutri, altri invece circondati da tessuti di peluche scuri che hanno un’aura di nobiltà sbiadita. Si capisce, comunque, che per l’artista “achrome” non significa “senza colore” ma intende spostare l’attenzione dal colore ai materiali stessi, senza stabilire scale di preferenza.
Mentre le singole opere hanno un loro senso individualmente, è solo con questa unica occasione di coglierne tante insieme (almeno per New York) che la ricerca ossessivo-compulsiva di Manzoni nel materiale ideale si svela. Questo oscilla dal puramente naturale—palline di cotone, strisce di pannelli isolanti (amianto) o pane – al sintetico sgargiante —polistirene, fibre luminose che sembrano parrucche usa e getta il giorno dopo una festa. Alcuni materiali sono dipinti di bianco o trattati con caolino, impasto per le ceramiche a uso industriale; alcune sono cucite, altre incollate. Insomma, un panorama dell’Italia post-bellica: industrie petrolchimiche (motore notevole del boom economico), residui delle fibre artificiali sviluppatesi durante l’autarchia fascista; richiami a un passato agricolo non poi così remoto. Senza giudizio né gerarchia.
La galleria ha inoltre assemblato due spazi immersivi rivestiti di pelo bianco, concepiti da Manzoni ma mai realizzati. Il pavimento così foderato suscita un sorprendente grado di intimità e simpatia per un artista apparentemente legato allo spettro.
Il piano superiore, dedicato alle Linee (1959-1961) da un’impressione diversa con meno opere e maggiori informazione biografiche e documentali, tra cui fotografie dell’artista al lavoro montate dal designer Stephanie Goto. Vediamo l’artista mentre traccia una linea (con una spugna inzuppata di inchiostro) su carta (arrotolata da un impianto meccanico per la produzione di camicie in Danimarca). Un operaio, si presuppone, guarda l’operazione con divertimento. C’è anche un filmato piacevole che suggerisce “Ma questa è davvero arte?”. Un impiegato Milanese tratta proprio con Manzoni in una galleria per l’acquisto di una delle opere di quella serie. Compra un barattolo sigillato con firma, data e lunghezza della cosa apparentemente contenuta all’interno. Una volta a casa, il “consumatore” non resiste. Rompe il sigillo (svalutando immediatamente l’opera appena comprata) e apre il vaso di Pandora divertendosi a srotolare la “sua” linea fino a dove l’artista ha scritto, quasi per sfidare “la fine”. Questo il lato ludico di Manzoni; ma in un’altra stanza troviamo la riproposizione di una mostra alla galleria Azimut –che Manzoni gestisce con i suoi compagni-concettualisti Agnetti e Castellani: le luci sono basse per proteggere le etichette sui barattoli di linee che, dopo decenni, rischiano il degrado progressivo (quasi fossero reliquie). Le etichette, che distinguono le linee l’una dall’altra, sono l’opera (a prescindere dal contenuto che potrebbe corrispondere o meno all’informazione scritta). Vanno conservate.
Le Linee riguardano in primo luogo una ricerca sulle possibilità fisico–estetiche di tracciare linee su carta (e Manzoni non fu certo unico in questo); in secondo luogo si avvicinano al processo di impacchettamento e mercificazione. Ma, al contrario di alcuni critici, non le vedo come un commento alla catena di montaggio, come d’altronde, l’uso di materiali sintetici negli Achrome non equivale a una critica al consumismo di massa. L’artista si auto-eclissa, e non perché ci tiene ad affermare l’alienazione dalla produzione di massa. Come in numerose immagini prese dalla cultura popolare¹ di stoffe auto-tessute, il rotolo di carta simboleggia un Unheimlich esistenziale. Da un momento all’altro la stessa materia potrebbe animarsi e sbarazzarsi dell’uomo. E questa minaccia stimola l’artista, ma non in senso politico. In Liguria, dove trascorre l’estate da giovane con la famiglia di origini nobili, Manzoni entra in contatto con artisti quali Giuseppe Pinot-Gallizio, autore dei rotoli di “pittura a metro.” Associato al gruppo degli Imaginist Bauhaus Pinot-Gallizio, precursore dei situazionisti, esprime tendenze rivoluzionarie dichiarate. Anche se Manzoni “opera” – come afferma il critico e poeta Emilio Villa –, questo non deve essere declinato nella figura dell’operaio. Egli non è interessato a un’analogia con l’operaio di fabbrica, per sua stessa ammissione di fatto non voleva “fare arte” quanto capire che vuol dire essere artista e vivere in modo “essenziale”. Questo incrocio tra gesti (proto)concettuali e formalismi ossessivi è ancora oggi pienamente evidente a Chelsea.