Broken Nature: Design Takes on Human Survival Triennale / Milano di

di 13 Agosto 2019

Mettiamola così: la fragilità è l’essenza più autentica di ciò che chiamiamo contemporaneo. A osservare con attenzione progetti come “Broken Nature”, la XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano curata da Paola Antonelli, sembra che come la si voglia girare la questione della sopravvivenza dell’umanità sia per la prima volta ancorata non a una nuova fase di quella che Nietzsche chiamava “volontà di potenza” quanto, piuttosto, alla capacità (ma ne siamo davvero capaci?) di camminare in un punta di piedi in una cristalleria per il resto dei nostri giorni. Cito Nietzsche che, non a caso, quando deve fare esempi di cosa sia la volontà di potenza prende esempi provenienti dall’architettura, come la tanto da lui amata Mole Antonelliana che svetta nei cieli torinesi, e di cui l’equivalente dell’equilibrismo del fragile futuro che ci attende sembra davvero difficile da trovare. “Broken Nature” ospita installazioni e oggetti al confine tra il design, l’arte e l’architettura che vanno dal Transitory Yarn di Alexandra Fruhstorfer (2016) al Nuka-doko di Dominique Chen (2008) fino all’Hippo Roller di Pettie Petzer e Johan Jonker (1991) e a lavori prodotti per l’occasione da designer come i Formafantasma, Neri Oxman e Sigil Collective. A Nietzsche, detto di passaggio, sicuramente “Broken Nature” non sarebbe piaciuta per nulla: questo, ovviamente, perché quanto è successo dal 1900 a oggi è il fallimento della possibile trasvalutazione dei valori che il filosofo aveva predetto – la forza, la rigidità, il superomismo che i primi decenni del Novecento hanno effettivamente testato sono falliti sotto il peso, radicale e incommensurabile, dell’ambiente e della natura che hanno ammortizzato con il dolore di un possibile suicidio il danno con cui Homo Sapiens ha prodotto Antropocene. Certo che il contrario della volontà di potenza non può essere, come in Nietzsche, l’ascetismo – cioè un esercizio di stile che mostra quanto siamo in grado di ridurre il nostro peso antropocentrico nel mondo – ma appunto una sorta di “volontà fragile”, di cui “Broken Nature” è magistrale espressione. Fragili sono i fossili e le sinfonie dell’orchestra animale in mostra, fragili i materiali su cui la nuova produzione di oggetti dovrà organizzarsi, fragili i processi algoritmici ispirati alla natura delle piante di cui la progettazione architettonica dovrebbe fare tesoro nei prossimi anni. Fragile, come spesso ha sostenuto il filosofo Paul B. Preciado, è anche l’unico aggettivo su cui può articolarsi una rivoluzione possibile questo perché, partendo ancora una volta dall’errata decostruzione dell’antropocentrismo operata da Nietzsche, si tratta di andare al di là del bene e del male – cioè di concetti ancora troppo umani – e provare a capire cosa si provi a essere un fiore, un fossile, un insetto o un minerale. Solo così, forse, il nostro rapporto con l’ambiente circostante può rinnovarsi nel modo sofisticato che la mostra e il lavoro di ricerca del team curatoriale suggeriscono; eppure, frattanto, si tratta di capire come mai il terreno di prova delle filosofie che mettono in crisi l’antropocentrismo sia solo quello dell’arte o del design. Il necessario cambiamento sociale, infatti, è ancora vittima delle logiche economiche e politiche che basano la loro sopravvivenza su un’ecologia insostenibile in cui al centro, ancorato e immobile, giace una specie di cadavere putrefatto dell’uomo di Vitruvio di Leonardo Da Vinci. La filosofia più interessante oggi, in aperto dialogo con le arti e il design, penso a intellettuali come Timothy Morton o Armen Avanessian, è tutta costruita sulla concepibilità di un nuovo spazio logico extra-umano: cosa significa che l’unico destino che ci è dato, adesso, è sopravvivere come soggetti umani solo se si distrugge l’immagine, cioè il concetto, di ciò che l’umano abbiamo pensato essere fino a oggi? Si è parlato giustamente di “postumano”, concetto di cui “Broken Nature” fa esplicito tesoro anche nei libri (presentati sul tavolo in uscita dall’esposizione) che l’hanno ispirata, ma bisogna capire che non è tanto un mutamento antropologico ciò che dobbiamo aspettarci affinché il rapporto umano-ambiente si capovolga quanto un mutamento di specie: un “postumano contemporaneo” (come ho provato a definire in Fragile Umanità, Einaudi, 2017) che dell’azione propulsiva della messa in mora dell’antropocentrismo ha fatto non un salto cognitivo, ma quantico. Umanoidi che, come nell’opera di Patricia Piccinini (Sanctuary, 2018), non sono più né animali né umani, né bonobo né altro, ma solo creature interstiziali tra esistenze indescrivibili e alla fine del mondo. Lo spazio della vita si piega, si mescola, e non c’è più niente che non sia semplicemente una forma di vita che si abbraccia e si tiene. Questo, forse, è il senso più profondo di questa Triennale una rilettura nel design del concetto cardine della filosofia di Gilles Deleuze: il “divenire animale”, forme di vite che diventano concatenazione con altre forme di vita attraverso, non a caso, l’uso di oggetti che ridisegnano lo spazio, il tempo, e le possibilità di un corpo. “Cosa può un corpo?”, ci chiederebbe Deleuze pensando a Spinoza e oggi, l’unica risposta, grazie a “Broken Nature”, torna esattamente quella dell’Etica del filosofo olandese: può solo ciò che la Natura gli consente di potere.

Altri articoli di

Leonardo Caffo