Nel giugno del 1976 la casa editrice La Nuova Foglio di Macerata pubblica un volume il cui titolo suscita immediato richiamo alla teoria psicoanalitica freudiana del complesso di Edipo, assumendo come “fantasma” l’artista per eccellenza di tutti i tempi: Michelangelo.1 L’immagine di copertina presenta sei riquadri che illustrano una successione di elaborazioni grafiche sul celebre volto della Sibilla Delfica della Cappella Sistina, una sorta di analisi dei vari livelli che sottendono l’opera. L’idea di decifrare il volto della Sibilla sotto diverse lenti ottiche suggerisce, in un certo senso, il contenuto stesso del volume: questa Ricerca sul contributo dato dalla donna all’arte italiana del Novecento, così recita il sottotitolo, si avvale di una prospettiva molteplice estranea all’idea di un universale definitivo e certo. Il libro nasce da un’esigenza personale dell’autrice, Simona Weller, non una storica, non una critica d’arte né una sociologa, ma una pittrice. Ma cosa significa precisamente “complesso di Michelangelo”? È la falsa credenza secondo cui «non c’è mai stata una Michelangelo donna», un senso di inferiorità penosamente subito dalle artiste nei riguardi del genio maschio creatore. La figura del grande artista del Rinascimento sarebbe all’origine di una mitologia artistica assoluta e immutabile, all’interno della quale è prevista unicamente la prospettiva maschile, quasi risiedesse nella donna una motivazione biologica negativa, una mancata capacità a creare. Educate fin da piccole a una condizione di “handicap creativo”, le donne non hanno mai creduto seriamente alle proprie capacità espressive, mantenendosi sempre su un piano dilettantistico e dedicandosi all’arte a tempo perso. Secondo Weller lo strumento di “presa di coscienza artistica” attraverso il quale la donna finalmente abiterà da protagonista il mondo dell’arte, dimostrando l’altissima qualità del suo lavoro, è la professionalità. Recentemente, rileggendo Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, ho avuto il piacere di ritrovare lo stesso nodo nel capitolo intitolato “Verso la liberazione”: «Priva di una formazione seria, [la donna] non sarà mai più niente di una dilettante. […] Un’opera d’arte non è un’illusione, è un oggetto solido; per costruirlo bisogna conoscere il proprio mestiere».2
Il punto è questo: Weller e insieme a lei Beauvoir, ritengono che la formazione, la tecnica, e la professionalità siano condizioni essenziali affinché un’opera d’arte, partendo da un immaginario astratto, si concretizzi in qualcosa di reale. Di tutt’altro avviso è il femminismo radicale separatista di ascendenza lonziana: creatività e professionalità sono sfere inconciliabili, entrare in contatto con il mercato, le gallerie, i musei e il collezionismo implica compromessi inaccettabili. Posizioni, si direbbe, in aperto contrasto.
Tuttavia, una volta preso in mano il volume ci si rende conto che i perimetri sono meno netti di quanto non sembrino a primo acchito, che i margini, gli sconfinamenti dentro e fuori il femminismo, dentro e fuori posizioni radicali, sono mossi. L’“anomalia editoriale” del libro (organizzato in quattro sezioni: interviste, testimonianze, questionario, schede bio-bibliografiche) denuncia il tentativo di sperimentazione di una nuova forma di scrittura, una sorta di decostruzione, per così dire, delle sicurezze del testo stampato: l’adesione al momento vissuto, all’oralità dell’intervista, ci trasmette oggi con freschezza e tangibilità i fatti dell’epoca come raramente riesce a fare un testo teorico; la riduzione del punto di vista degli autori alle sole Introduzione (Simona Weller) e Prefazione (Cesare Vivaldi), a favore della predominanza di una molteplicità di voci e posizioni, il fatto che l’autrice sia prima di tutto un’artista, tutti questi fattori concorrono a fare de Il complesso di Michelangelo uno degli episodi più significativi della stagione neo-femminista italiana, nel particolare frangente dell’incontro tra l’arte e la militanza.
Ridotte all’osso, le questioni poste da Weller possono essere sintetizzate come segue: esiste nel soggetto creativo femminile un complesso di Michelangelo che mina la capacità espressiva e la possibilità di affermarsi? In quale misura il mondo dell’arte è misogino? Quale livello di integrazione o emarginazione vive un’artista donna? E ancora, una questione non direttamente formulata, ma leggibile tra le righe: quanta parte ha il femminismo in questioni siffatte? Particolare attenzione merita l’ultima sezione del libro, un prezioso regesto delle artiste attive in Italia negli anni Settanta, una vera e propria mappatura che dal Nord scende fino a Napoli. Le schede, di diversa estensione in base al materiale iconografico e informativo inviato all’autrice dalle artiste, sono ben 270, un numero senza dubbio considerevole.
La vicenda del libro non si concluse con la pubblicazione. Nella primavera del 1977, presso la galleria di via Giulia, venne allestita una mostra dall’omonimo titolo dedicata a quaranta artiste romane, che si sviluppava in ordine cronologico, dal primo Novecento fino alle più recenti tendenze degli anni Settanta. La mostra è stato uno dei primi episodi in cui si faceva il punto sulla produzione artistica femminile in Italia con l’idea di ri-tracciare i perimetri della storia dell’arte, partendo dall’oggi e risalendo all’inizio del secolo.3
Il perché della storica esclusione della donna dalla storia dell’arte, era stata fin dai primi anni del decennio materia di studio di precoci ricerche femministe americane. Nel 1971 Linda Nochlin pubblicava il celebre saggio Why Have There Been No Great Women Artists, che individuava all’origine del problema il condizionamento esercitato sulle donne da parte delle istituzioni e dall’educazione, focalizzando l’attenzione sulla figura del grande artista, «protagonista di cento monografie», per intenderci il Michelangelo di Weller. Maria Antonietta Trasforini, nell’introdurre il saggio di Nochlin, scriveva quanto il testo dell’americana debba essere considerato come un apripista della storia femminista dell’arte, come il primo tentativo di recupero delle artiste dimenticate, a favore di una riscrittura, o meglio di una decostruzione della storia dell’arte.4
In questi termini il volume di Weller può essere considerato come il primo passo del medesimo processo, nel perimetro del nostro Paese.