Le opere dell’artista indiana Sheela Gowda (Bhadravati, Karnataka, 1957; vive e lavora a Bangalore) nell’allestimento della personale “Remains” al Pirelli HangarBicocca sembrano rispecchiare quelle che Michel Foucault definisce “eterotopie”, ovvero “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” (Le parole e le cose, 1966).
La vicinanza dei lavori And That Is No Lie (2015) e It Stands Fallen (2015-2016) rende esplicita l’idea di sospensione dello spazio, grazie all’elevazione della struttura composta da una tenda rossa e dai drappi della stessa che si connettono con la superficie sottostante. L’opera è un chiaro riferimento alla shamiana – costruzione modulare che sottende una funzione sociale, politica o commerciale – icona della cultura indiana e insieme elemento in cui si concretizza il processo creativo dell’artista. La creazione di architetture modulari tramite materiali di scarto ricrea all’interno delle navate un osservatorio per cieli invisibili, come nel caso di A Blanket and the Sky (2004), e un rifugio contingente come Darkroom (2006), in cui il rapporto con il corpo umano è generato dall’immanenza temporanea della mostra.
Al centro della navata la distesa di pietre di granito Stopover (2012), composta da duecento mortai obsoleti, restituisce una certa sacralità, mentre What Yet Remains (2017), pattern formato da lastre di metallo riciclate (utilizzate nella cultura indiana per la costruzione dei bandli[1]), ci immergono in un passato mai esistito, uno spazio archetipo composto da ruderi che modificano la percezione dello spazio industriale.
Il simbolismo materico dell’artista si riscontra nell’installazione Collateral (2007) che sovrasta altre opere presenti nello spazio espositivo come per esempio Black Square (2014). La combustione di una moltitudine di micro-elementi sopra i rettangoli ricoperti da reti metalliche, infatti, sospende il tempo lasciando visibili i residui dei materiali precedentemente lavorati dall’artista, e porta l’attenzione al centro della sala. Complessivamente lo spazio se da un lato valorizza le opere di Gowda, dall’altro sembra imporre ai curatori un criterio espositivo forzato nella scelta di includere una notevole quantità di opere, talvolta a discapito delle stesse.