“Sensazione” e sensazionalismo inaugurano entrambi nel 1997. La prima era stata la mostra degli Young British Artists nelle sale dalla Royal Academy di Londra, il secondo si imponeva come il fattore artistico di tendenza in grado di suscitare contemporaneamente l’interesse della critica e dell’opinione pubblica. Infatti, mentre consacrava il riscatto sociale e artistico auspicato nei dieci anni precedenti da artisti come Jenny Saville, Sarah Lucas, Tracey Emin e Damien Hirst, “Sensation” istituzionalizzava di fatto una nuova prospettiva artistica caratterizzata da soluzioni estetiche estremamente seducenti. A prescindere dalle tante critiche, l’esperienza segnò gli equilibri del sistema dell’arte e aiutò a definire quell’eredità culturale che, generazione dopo generazione, descrive oggi un atteggiamento sempre più trasparente nell’affrontare tematiche sensibili, controverse e provocatorie.
Ecco perché, a distanza di vent’anni, lo stesso curatore di “Sensation” Norman Rosenthal (oggi insieme a Harry Woodlock) propone “Breathless. London Art Now” e raduna a Ca’ Pesaro sedici artisti di una rinnovata gioventù londinese. D’altronde rimanere senza respiro è la conseguenza di una o più sensazioni forti e, come un sintomo della precedente, la mostra rincorre il gusto della sua “precronistoria” trovando tanto il modo per ricordarla quanto per superarla.
Nonostante l’antagonismo cronologico, entrambe le occasioni concordano sul fatto che la loro forza generatrice derivi da modelli di società complessi ed esplosi, in cui l’ovvia rivalità tra speculazioni artistiche si risolve nella personale testimonianza del sé narrante.
Dove la self promotion degli YBA dimostrava una risposta coerentemente energica al liberalismo economico e sociale degli anni Ottanta, la frammentazione culturale e il bipolarismo leave-remain della Brexit influenzano una produzione artistica esausta e resiliente, pronta a denunciare una vulnerabilità espansa, sia personale che collettiva. Sono episodi intimi, militanti, talvolta affetti da una strana schizofrenia che mira costantemente a suscitare la dispnea cui allude il titolo.
Alcuni cercano un’alienazione fisica quasi congedandosi da qualsiasi operazione sensibile, come suggeriscono le secche figure metalliche e le tele di Eddie Peake (Komodo Dragon, 2015) o le immagini comics di Ed Fornieles (Finiliar, 2019); altri descrivono l’inibizione relazionale verso l’oggetto di piacere, quando il corpo maschile è scostante nonostante il desiderio – come in Taken by your Equivocal Stance III di Prem Sahib (2015) –; altri ancora sono placidi e sensuali paesaggi da contemplare, come i genitali fuori scala di Eddie e Kate (2015), entrambi dipinti da Celia Hempton. La sua pennellata è sintomo di un certo voyerismo verso una serie di immagini di sorveglianza rinvenute nel web, e approccia la stessa ossessione per il controllo che, con grande intelligenza, affronta Lydia Ourhamane in Live Call (2019): una telefonata che, per l’intera durata della mostra, permetterà allo spettatore di sentire l’artista ovunque essa si trovi.
In generale, tra preoccupazione e introspezione, sembra esserci meno sensazionalismo del Novantasette. O forse è stato digerito al punto da non notarlo. Ma una riflessione è doverosa e segna il destino di qualsiasi generazione: a prescindere dalla fortuna dei “Breathless artists”, ciascun presente è la base di ogni futuro e, soprattutto se malato, angosce e tensioni irrisolte si esasperano. Victoria Sin, perentoria, lo ricorda in The will, l’unica performance inaugurale.