Gli spazi del museo MADRE di Napoli sorgono non lontano dal confine tracciato da quella linea immaginaria che definisce e racchiude l’immenso centro storico partenopeo, il più grande in Italia. La cosa che più mi colpisce di Napoli, ogni volta che ci torno, è la concentrazione di stimoli visivi che caratterizza ogni angolo della città: quando la osservo ho sempre la sensazione di non riuscire ad afferrarla, a catturarla tutta con lo sguardo. A Napoli si sono progressivamente affastellate le tracce di epoche e culture diverse, ma non è tanto la qualità o quantità di queste testimonianze così variegate a colpirmi, quanto il modo in cui esse hanno finito per combinarsi organicamente in una trama fittissima e unica. Se c’è una ragione per cui ho apprezzato la scelta di presentare questo workshop dedicato al display proprio a Napoli, tra le tante città d’arte italiane, per me quella ragione è Napoli stessa, più di ogni museo o fondazione.
In posizione di chiusura all’interno del percorso del progetto Q-Rated, ideato da Sarah Cosulich Canarutto e Stefano Collicelli Cagol, rispettivamente direttrice e curatore della XVII Quadriennale di Roma, il workshop di Napoli tende una mano proprio al primo appuntamento della serie, “L’artista come curatore, il curatore come artista”, presentato a Roma nel luglio 2018. Se il display definisce, almeno letteralmente, la modalità con cui le opere d’arte vengono presentate fisicamente all’interno di uno spazio, l’argomento si apre d’altronde a molteplici livelli di lettura. Come già rilevato a metà degli anni Settanta da Brian O’Doherty, quando scriveva il primo dei saggi poi confluiti nel volume Inside the white cube, l’allestimento “fornisce molte indicazioni su ciò che viene esposto. Esso esprime un’interpretazione e un giudizio di valore, ed è inconsapevolmente influenzato dal gusto e dalla moda”1. Oggi le relazioni di potere e di sapere sottese alla pratica espositiva, e l’influenza del display nella ricezione delle opere d’arte, sono consapevolezze più comuni, grazie al lavoro e agli studi di artisti, curatori e ricercatori.
Come nelle precedenti edizioni, ciascuna delle tre giornate del workshop è stata guidata da tutor internazionali, che hanno approfondito l’argomento proposto partendo dalla propria esperienza personale. Krist Gruijthuijsen, curatore e direttore del KW di Berlino, ha aperto la prima giornata accennando alla sua formazione come artista, spiegando come questa ha influenzato in modo sostanziale il suo sguardo e il suo modo di approcciare materiali e argomenti. Il lavoro svolto al Kunstverein di Amsterdam e al Grazer Kunstverein anticipa per molti aspetti quello intavolato al KW dal 2016, e lascia emergere alcune costanti, in particolare la centralità garantita ai singoli artisti nelle programmazioni da lui curate. Soprattutto al KW, spicca la predilezione per le mostre personali, mentre il formato collettivo è interpretato a livello macro, e nasce dall’accostamento di più personali allestite contemporaneamente e in conversazione. Come esempio esplicativo del modo in cui Gruijthuijsen ama giocare con il display si può citare il progetto The Peacock, realizzato al Grazer Kunstverein, nel cui contesto il curatore ha invitato alcuni artisti a esaminare lo spazio espositivo col fine di proporre degli interventi “di arredo”. I lavori presentati in questa serie sono riapparsi ciclicamente come elementi di allestimento di altre mostre, costituendo una sorta di spina dorsale continuativa del display.
Nella seconda giornata, l’artista Lucy McKenzie ha parlato estesamente della mostra “Passer-by”, ideata e curata da Atelier E.B, etichetta di moda nata dalla collaborazione tra McKenzie stessa e la designer Beca Lipscombe. Passer-by è un progetto ibrido, che si dispiega intorno a una ricerca storica sulla figura del manichino: il percorso espositivo combina oggetti provenienti da diversi contesti e epoche, materiale storico, fotografie, lavori di altri artisti, includendo un vero e proprio showroom, dove i visitatori possono provare e ordinare i capi della nuova collezione ideata da Atelier E.B. L’intervento di McKenzie ha attraversato trasversalmente arte, moda e design, sottolineando più volte la tendenza diffusa a valutare negativamente il display quale tecnica di inganno e seduzione. Atelier E.B si serve invece del display come strumento critico, per scandagliare le gerarchie culturali e mettere in discussione il concetto di valore, riscoprendo degli espedienti preziosi nella collaborazione fra artisti e nell’uso cosciente dell’appropriazione e della copia.
Fredi Fischli e Niels Olsen, attualmente alla direzione delle mostre all’Istituto di storia e teoria dell’architettura del Politecnico federale svizzero, hanno animato l’ultima giornata del workshop con una rassegna dei molti progetti da loro curati. Sono partiti dalle primissime esperienze nate all’interno del project space Studiolo, per arrivare alle più recenti proposte presentate al LUMA Westbau di Zurigo e allo Swiss Institute di New York. L’architettura si delinea da subito come riferimento essenziale per il loro approccio curatoriale: la relazione tra le opere e lo spazio è il punto di partenza nella definizione delle mostre, e si traduce in una configurazione letteralmente architettonica del display, prevedendo talvolta l’inserimento di elementi fisici, come strutture o teli in diversi materiali, che costruiscono partizioni spaziali e organizzano i lavori esposti. Per la realizzazione di alcune di queste architetture nell’architettura, i due si sono avvalsi della collaborazione di designer professionisti, come ad esempio Petra Blaisse, che ha lavorato più volte con Fischli e Olsen dietro le quinte, prima di essere lei stessa protagonista di una mostra da loro curata.
Tutti questi interventi hanno stimolato domande e discussioni collettive, che si sono alternate a momenti dedicati alla presentazione delle ricerche dei partecipanti, e a sessioni propriamente laboratoriali. Siamo tornati più volte a riflettere sulle interconnessioni esistenti tra l’arte e altri campi di applicazione del display, quali la moda e il commercio, indagando punti di incontro e di sovrapposizione tra questi diversi ambiti. Nel complesso è emerso un approccio omogeneo al tema proposto, che ha focalizzato l’attenzione principalmente su questioni di tipo formale, all’interno del paradigma canonico di mostra, fondata sull’oggetto e inquadrata in una cornice spazio-temporale unitaria.
Dopo la chiusura di questa esperienza mi sono tornate in mente alcune parole di due curatori che hanno partecipato come tutor proprio a quel primo workshop romano menzionato precedentemente. In una intervista rilasciata qualche mese fa, Pierre Bal-Blanc sottolinea l’importanza di essere consapevoli del paradigma di mostra che si sceglie di adottare, perché ogni modello di display produce una determinata soggettività nello spettatore2. Invece, nell’introduzione alla raccolta di saggi The artist as curator, Elena Filipovic osserva come, almeno sino a oggi, siano stati soprattutto gli artisti a scardinare le strutture e le convenzioni del display, lavorando sulla mostra come “forma”3 e, aggiungerei, citando Agamben ancora tramite Bal-Blanc, come “dispositivo”4.
Queste considerazioni chiudono in qualche modo il cerchio tracciato dai sei workshop Q-rated e aprono al contempo molte domande. La necessità di approfondire un approccio critico all’argomento si lega per me al desiderio di continuare ad ampliare lo sguardo, per ragionare su alcuni aspetti chiave: il modo in cui i linguaggi artistici influenzano i formati espositivi, e viceversa; la posizione e il ruolo del pubblico; la mostra come struttura attraverso cui si produce un sapere, nel contesto di un determinato orizzonte economico-politico. In questa prospettiva, mi sembra utile ritrovare proprio negli artisti, e nelle loro ricerche, la lente attraverso cui guardare, per mettere a fuoco, decostruire e re-immaginare la pratica espositiva e le strategie di display.