Le immagini di Frida Orupabo riducono i confini fra dimensione archivistica e personale, ammesso che tale divisione esista davvero. Da Gavin Brown a Roma, tuttavia, i collage dell’artista compongono un diorama vivente in scala umana che ci porta necessariamente a mettere in discussione categorie quali immagine, struttura, razza e soggettività.
Una tenda grigio chiaro ricopre gran parte delle pareti della galleria, rivelando i muri di pietra nuda sulle altezze e inquadrando le alte finestre e l’altare vuoto. L’ex chiesa medievale con i suoi tratti grezzi e misteriosi, è ammorbidita dalle pieghe del tessuto che cadono perfettamente simmetriche e si increspano lungo le pareti. C’è un senso di calore e perplessità, come fossimo in un salotto pieno di immagini e oggetti affascinanti e inquietanti insieme. Tre sculture in alluminio serigrafato sono posizionate su piedistalli di parallelepipedi bianchi al centro dello spazio; sono busti che rivolgono lo sguardo verso lo spettatore, regolando in qualche modo lo spazio. Sull’altare infatti c’è un bilanciere che presenta una testa di resina su ogni estremità: questo è sì il volto dell’artista, ma anche uno dei tanti volti in questa installazione. Un sé che ha vissuto, avrebbe potuto vivere, ha bisogno di vivere. Sulla parete est invece si stagliano otto autoritratti: fissate con puntine di metallo queste figure in alluminio ricoperte da strati di carta fotografica, se da un lato implicano un movimento dall’altro sottolineano anche l’incapacità di muoversi in maniera indipendente, proprio come le marionette o la bambola di carta di un bambino. Un’immagine è un bambino, un’altra un volto che guarda in basso verso le opere. Altri autoritratti sono sospesi, precipitano in basso con la forza del peso di una roccia o volano verso il cielo su bianche ali piumate e svolazzanti. Accanto a queste creature alate c’è una donna distesa vestita con quelli che sembrano essere diversi strati di un elegante caftano o una vestaglia – in questa posa ricorda il dipinto di Édouard Manet Jean Duval, Baudelaire’s Mistress, Reclining (1862).
Usando le immagini d’archivio come autoritratti, Orupabo attiva l’affermazione di Édouard Glissant secondo cui “in relazione ogni soggetto è un oggetto e ogni oggetto un soggetto”. Le immagini, un tempo utilizzate per oggettivare, vengono recuperate nella soggettività nella creazione del sé. Un sé in cambiamento, in costante movimento, in dialogo con tutti noi.