Era il 2 marzo, un lunedì. Mentre facevo colazione all’Hotel Albert 1er di Tolosa, prima di condurre il seminario “Exposition collective pour un corps individuel” [Collective Exhibition for a Single Body]1 per gli studenti dell’Institut Supérieur Des Arts,, su invito dell’artista Emilie Pitoiset, mi sono imbattuto in un articolo del quotidiano Libération, il cui titolo ha attirato la mia attenzione: “Césars: désormais, on se lève et on se casse”. Tradotto banalmente: “Al César [gli Oscar del cinema francese] di questi tempi, ti alzi e esci.2” Secondo il filosofo John L. Austin3, la dichiarazione performativa contrasta con la dichiarazione costitutiva, che descrive semplicemente un’azione la cui esecuzione è indipendente dall’affermazione stessa. Quindi la dichiarazione performativa è manifestazione linguistica e atto di realtà allo stesso tempo. Judith Butler ha costruito la sua teoria sul “problema di genere”4 proprio attingendo alle nozioni di performatività avanzate da Austin, quindi nell’affermazione “dichiaro aperta la sessione” – che prende in prestito dal filosofo inglese per spiegare la performatività – non c’è alcun soggetto, ma un oratore che agisce come tale. La sessione non è qualcosa che esiste a prescindere, ma ‘diventa’ quando un oratore la annuncia. “Dire che il corpo sessuato è performativo vuol dire che non ha uno statuto ontologico indipendentemente dalle azioni che costituiscono la sua realtà.5” L’articolo su Libération è di Virginie Despentes6 e affronta l’atto performativo – incarnato nella realtà nel senso di Austin, in contrasto con la dichiarazione costitutiva – eseguito dall’attrice Adèle Haenel durante la cerimonia di premiazione di quest’anno al festival César. Il suo gesto improvvisato, di rottura con un certo decoro, ha concluso la premiazione. Dopo quell’atto di verità, Despentes accresce brillantemente la sua sfacciata eleganza con la sua padronanza nel linguaggio e offre quelle parole, proprie del suo vocabolario, dalla realtà del suo diario quotidiano, con la stessa chiarezza austera che avrebbe usato Jean Genet. Quella stessa padronanza del linguaggio, intesa come arma contro quelli che paralizzano le minoranze nelle identità precluse.
Così ho deciso di utilizzare questo espediente per iniziare la mia lezione alla scuola d’arte su Quai de la Daurade, con una lettura collettiva di quell’articolo. Questo mi ha aiutato a concretizzare la mia idea sull’uso della partitura nella performance – nel lasso di tempo condiviso con quegli studenti francesi – usando un esempio tangibile per sottolineare la differenza rispetto al libretto teatrale, il cui principio, al contrario, è evadere dal continuum della vita quotidiana. La partitura di “Collective Exhibition for a Single Body” mette insieme un collettivo autoriale in cui ogni singolo soggetto, attraverso un gesto o un movimento, senza sostegno né complici, ristabilisce ordine, frequenza e tempo desiderati. Questo corpo individuale può appartenere agli autori stessi o a terzi nell’attivazione di ogni gesto, in base alle partiture prodotte (istruzioni, note visive o sonore, oggetti, materiali, ecc.) con tale mediazione in mente – ma anche per le proprie qualità visive, indipendenti dalle loro attivazioni. La stessa procedura l’ho sviluppata nel seminario a Tolosa7 e in quello a Zagabria presso la WHW Akademija8, – qui con il coreografo Manuel Pelmus. In entrambe le occasioni i membri del gruppo con il proprio gesto, e insieme ai movimenti di tutti, hanno dato forma a un balletto polifonico ricreato nel mezzo di un pubblico di terzo partito, invitato a partecipare all’evento. Questo progetto riporta l’attenzione sul luogo in cui sono prodotti i contributi che lo compongono, così l’individuo (autore del contributo), il curatore che lo seleziona, il coreografo che lo aziona, l’esecutore o il danzatore che lo incarna e, infine, il testimone presente alla sua iterazione, non contano di per sé. Ciò che importa in realtà è il discorso in questione, il luogo in cui viene affermato e le modalità in cui viene condiviso. L’individuo è solo la punteggiatura di uno statement, uno strumento di enunciazione. È nel luogo dove un discorso corale (simmetria tra i protagonisti) assieme a un individuo (ruolo reversibile) che si esprime un’arte democratica. “Collective Exhibition for a Single Body” è stata sviluppata per la prima volta ad Atene in occasione di documenta 14 (“The documenta 14 Score”)9, con il contributo di artisti che hanno preso parte all’evento; poi una seconda volta usando le opere d’arte presenti nella collezione Kontakt a Vienna (“The Private Score”)10. La partitura cerca di sfidare il principio di sovranità del singolo autore che cuce addosso i ruoli su ogni protagonista che compone l’opera: artista, produttore, curatore, coreografo, esecutore o danzatore, pubblico incluso. D’altra parte, questo modello di partitura aperta introduce una pluralità di collaboratori e autori, un principio di uguaglianza valido per coloro che ne fanno uso tanto quanto per quelli che la contemplano, perché le procedure che la determinano sono accessibili (mostrate o pubblicate) e tangibili (non-virtuoso).
Chiunque, testimone o attore che sia, può unirsi al processo secondo il proprio tempo e i propri ritmi; la separazione tra coloro che agiscono e quelli che sentono è porosa e fluttuante – i ruoli sono intercambiabili.
Il gesto dell’attrice Adèle Haenel, come descritto da Virginie Despentes, alimenta la rottura con i parametri di certa etichetta imposti dall’industria culturale. Come quando l’antico filosofo greco Diogene giaceva disteso al sole e Alessandro, a cavallo, si accosta a lui chiedendogli se potesse fargli un favore, l’altro rispose: “Sì, stai lontano dalla mia luce solare”. Da qualche parte tra i protagonisti – Cesare e Adèle – Despentes aggiorna il concetto del cinico Diogene. L’autrice descrive il tentativo di resistenza rispetto alle platee in cui l’ attrice giace come un oggetto inerme e la sua capacità di trasformare quello spazio in un palcoscenico alternativo in cui si esprime da soggetto consapevole. La separazione tra palcoscenico/auditorium crolla e la giovane donna revoca il potere sovrano dell’accademia cinematografica – proprio come fa Diogene con il potere imperiale dell’eroe macedone, che detta le regole del gioco e marchia i vincitori. Ancora una volta, come il cinico filosofo che si lancia in un’arringa in mezzo al pubblico per porre fine al discorso dell’oratore, Haenel apre il suo corpo, si accascia sulla seduta del suo spettatore e, in un movimento antieroico, marca la sua uscita dal teatro. L’attrice, con il suo corpo agile, e la scrittrice, con la sua sottile retorica, capovolgono le regole del decoro. La prima si appropria della struttura narrativa del programma televisivo, diviso tra il palcoscenico (i funzionari), l’auditorium (i pochi felici) e la strada (telespettatori), per eseguire una narrativa alternativa anziché un gioco sceneggiato. Quest’ultima mantiene il tono acre del suo linguaggio volgare e funge da intermediario per il gesto di Haenel – connotando i suoi attacchi verbali della loro origine sociale. Virginie Despentes, che proviene dalla classe operaia, esercita la retorica come un qualsiasi funzionario pubblico, e conduce un’analisi sociologica quanto un dottorando in scienze sociali, ma rifiuta di usare questo strumento, perché è dalla parte “dell’oppresso che si prende carico della narrazione della propria disavventura”11.
Haenel e Despentes hanno problematizzato la cerimonia di premiazione, nel senso in cui Foucault intende la problematizzazione: hanno offerto una risposta a quel rituale capitalistico ed etero-patriarcale il cui sistema è incarnato da un’accademia organizzata gerarchicamente in discipline. Ciascuno quindi aggiorna, a modo suo, un’“etica” che, secondo Baruch Spinoza (1632-1677), afferma che “È agli schiavi, non agli uomini liberi, che si dà un premio per ricompensarli per essersi comportati bene.” In una sola serata, questa cerimonia non ha mai riunito uno spettro così ampio di minoranze e persone oppresse, persone di colore, nordafricani, ebrei, donne maltrattate, persone perseguitate da pedofili – tutti in competizione per il ruolo di vittima. Nonostante questo eccezionale raduno, il premio per il miglior regista è andato a Roman Polanski, facilitato dai produttori più potenti. Perché, come sottolinea Despentes, “Quando dai a un ragazzo un budget di oltre 25 milioni per realizzare un film TV, il messaggio è nel budget”12.
All’epoca, Marguerite Duras diceva già che era il budget di un film a renderlo politico. È stato proprio per motivi politici che il comitato editoriale di Cahiers du Cinéma si è recentemente dimesso, in risposta alla presa in consegna della rivista da parte di un gruppo di produttori13. La politica sembra essere una regola grammaticale nelle accademie cinematografiche – la regola dice di non confondere argomento e predicato. Ciò significa che un attore può, per definizione, interpretare ogni tipo di ruolo, incluso un omosessuale se è eterosessuale e viceversa; d’altra parte, la moralità determina la distinzione tra la sua vita privata e la loro professione. Per quanto riguarda quest’ultima, lo “sguardo maschile” – concetto definito da Laura Mulvey nel 197514, in base al quale l’uomo, come personaggio attivo che guida la narrazione, è lo spettatore, il suo sguardo; e la donna (e questo vale per tutte le altre minoranze) è il personaggio passivo, ridotto allo status di icona o “materia prima” nonché oggetto dello sguardo dell’uomo – mantiene invariabilmente la sua egemonia quale soggetto bianco. Durante questa cerimonia, inoltre, quel pallido volto occidentale ha moltiplicato i predicati con connotazioni minoritarie al fine di creare confusione. Anche se, qualche volta, sono gli oppressi a farsi soggetto, come nel film Les Misérables15 di Ladj Ly, che parla della periferia francese vista da coloro che la vivono, questo deve restare ai margini. Ci sono due polarità qui, che manifestano in maniera divergente la distinzione che deve esistere tra opera e autore. La prima ritiene che l’opera debba separarsi dalla biografia personale dell’autore, mentre la seconda afferma che non è possibile ignorare quest’ultima. Polanski stesso ha messo in scena la fase di preparazione al suo film J’accuse stabilendo il nesso tra l’affare Dreyfus e il suo status quale persona accusata di reati di stupro (il comunicato stampa che promuove il film fa riferimento a questo16); il regista qui ha scelto di confondere argomento e predicato, in contraddizione con i suoi stessi sostenitori, che cercano di tenere separate le due entità. Il gesto di Haenal ha contrastato questa strategia reiterando, attraverso la sua interpretazione, la confusione tra soggetto e predicato, ma dal punto di vista della preda – essendo stata un tempo riconosciuta vittima di abusi sessuali su minori (oggi è un’attrice acclamata). Haenal porta in primo piano la finzione di Polanski che si identifica una volta con Dreyfus, una volta con Zola, screditando così la sua relazione con la realtà dei fatti.
Come sottolinea Despentes – che sarebbe meglio associare al Zola di L’Assommoir – quando si rivolge ai membri dell’Accademia sul premio assegnato al regista: “Il vostro piacere sta nella predazione, è l’unico modo in cui potete comprendere lo stile”17 . La dichiarazione performativa è allo stesso tempo una manifestazione linguistica e un atto di realtà e verità, confonde soggetto e predicato, rompendo con un sistema di sovranità etero-patriarcale basato sulla messinscena, la separazione di classe e di genere, e la divisione del lavoro. Proprio come il gesto di Haenel e la narrativa di Despentes, la partitura di “Collective Exhibition for a Single Body” è dalla parte del realismo. Queste forme di azione e di scrittura istituiscono un legame tra soggetto e predicato; tra la soggettività dell’individuo e la realtà e la verità dell’azione. Di conseguenza, questa partitura propone una “condotta della condotta”18 che moltiplica gli sguardi (quello dell’artista, del coreografo, dell’attore, del pubblico, ecc.) all’interno di un’opera corale, le cui parti si aggrappano alla propria sovranità ma sono pluralizzate all’interno di un sistema aperto.
Lo sguardo curatoriale diventa così un nuovo paradigma per tutti i creativi. Professionali o dilettanti, occasionali o esperti, questi sono in grado di infrangere il principio predatorio che appartiene all’autore tradizionale, che si appropria delle risorse senza riconoscere o promuoverne le fonti. Lo sguardo curatoriale, d’altra parte, si delinea come un modello che manifesta il movimento collettivo e individuale di una soggettività multipla.