Nathaniel Mellors: Dovremmo parlare delle tue opere e della mostra a cui stai lavorando.
Tala Madani: La situazione attuale è talmente preoccupante che è molto difficile lavorare, considerando che lavoriamo almeno la metà del tempo con i bambini. Recentemente pensavo a come si comporta il cervello in una situazione come questa: si focalizza sul trauma del momento o desidera solo fuggire e rifugiarsi in qualcosa di diverso?
NM: So bene a cosa ti riferisci. Ma non è qualcosa con cui ti destreggi costantemente, un equilibrio costante nel tuo lavoro?
TM: Certo, sono sempre consapevole dello stato di un ambiente, della cultura attorno. Cerco di inserire il mio lavoro in uno spazio di frizione in relazione all’ambiente. L’opera nasce perché qualcosa dentro di me non è in sintonia con l’ambiente che mi circonda, ma oggi, questo livello di ansia globale esponenziale ha davvero cambiato tutto.
NM: Capisco, quindi se l’ambiente circostante si complica, la tua capacità di calibrare va fuori controllo? Come si complica l’equilibro delle dinamiche fra interno e esterno quando le cose diventano più estreme fuori? Il tuo lavoro è già impregnato di alcuni degli aspetti più estremi del comportamento umano.
TM: Non che nulla sia davvero equilibrato, ma in un certo senso sì. Sembra che ci sia qualcosa in superficie, come una patina di felicità, che ora viene messa in discussione dal COVID-19. Il modo in cui solitamente reagivo a una rappresentazione occidentale di questa felicità supposta consisteva nel mostrarne le falle. E ora, davanti a tutta questa ansia sociale, non mi sento più di farlo. Ci vuole più tempo per trovare una linea in questo momento. Così ho iniziato a realizzare alcuni dipinti che trattano in modo molto diretto quello che sta succedendo. Ad esempio, ho dipinto una mascherina, o dei ventilatori – c’è qualcosa nell’aria che si muove; o qualche nuova idea di figura – sono diventate davvero inconsistenti, così fragili…
NM: Dipingi con più vulnerabilità fisica del solito?
TM: Sì.
NM: È interessante, perché penso che tu dipinga una vulnerabilità fisica che è inattaccabile. Molte figure sono come i personaggi dei cartoni animati che puoi tentare di rompere ma che in realtà non muoiono.
TM: Ci ridono su, non si arrabbiano per questo.
NM: Non ne dubito, ma penso che la morte sia una costante nella tua opera, è simboleggiata in tanti modi. È leggibile una sorta di iconografia a riguardo.
TM: Sono stata per anni molto interessata all’idea del suicidio, l’idea di una morte per scelta. Adesso c’è questa morte involontaria globale, massiva. Quindi anche l’idea di rappresentare il suicidio è piuttosto discutibile. Il suicidio è estraneo alla mia psicologia, forse è per questo che sono molto curiosa sull’idea di scegliere sulla propria morte e al romanticismo che circonda tale decisione. Leggevo alcuni scritti di Ali Shariati, che ha studiato in Francia negli anni ’50, in cui unisce esistenzialismo e sociologia islamica. Ovviamente c’è una cultura del martirio nel Cristianesimo e nell’Islam, e poi il suicidio assistito…
NM: Sei critica riguardo il martirio?
TM: Più che critica sono sconcertata. Nei dipinti dei ventilatori ad esempio, questi stanno smaterializzando la figura, fino a cancellarla. Sto lavorando a questi dipinti di cemento che mostrano l’ombra di qualcuno su un tetto, pronto a saltare, ma quello che si vede è il terreno.
NM: Quindi stai dipingendo figure più fragili perché il tuo senso di fisicità al momento è più vulnerabile…in realtà ho notato che queste figure più immateriali sono comparse nel tuo lavoro già negli ultimi due anni. Come quei fantasmi che tengono in braccio neonati – madri fantasma, padri fantasma – figure che sono quasi vapori, nuvole di gas. Sono simboli di morte o forme di vita umana ai limiti.
TM: Sì, anche quelli erano giustapposti ai dipinti dei bambini. Poi c’è questa relazione tra il COVID-19 e l’età, fortunatamente non colpisce i bambini, non la maggior parte. Questo crea due diverse esperienze per due fasce d’età. In molte mitologie, i giovani uccidono i vecchi o sono i vecchi a uccidere i giovani? Questa è la lotta dei secoli: il vecchio soccomberà alla volontà delle giovani generazioni? O i giovani obbediranno?
NM: Un mito che non passa mai di moda.
TM: Esatto. Ci sono così tanti esempi, come Edipo re. E oggi i giovani che combattono il cambiamento climatico… una triste ironia.
NM: Stai inquadrando tutto questo in una vendetta della natura? [ride]
TM: Certo, la cosa terribile è che i potenti saranno più protetti rispetto alle persone comuni. Quindi non funzionerà come nella mitologia. Non cambierà nulla a meno che noi, come società, non lo esigiamo.
NM: Molti lavoratori, senza il riacquisto di azioni o un’iniezione di liquidità attraverso l’alleggerimento quantitativo, sono come schiavi vincolati entro questo sistema. Quando accadono questi shock sistemici, come l’11 settembre o il Coronavirus, sembra che ci sia l’opportunità per un cambiamento molto più radicale, ma è difficile rovesciare gli Antichi Dei.
TM: Mi sembra che abbiamo avuto un’esperienza simile mentre aspettavamo il nostro secondo figlio. Ricordo che l’unica cosa che riuscivi a fare era scrivere musica e non sei riuscito a fermarti per due anni. Vuoi parlarne?
NM: Sì, immagino che tutto fosse in attesa nella vita normale. L’unico canale creativo che mi sembrava aperto era la musica. Lavoro sempre in modo collaborativo e mi sono reso conto che avrei potuto lavorare anche in modo indipendente. Ho iniziato a disegnare di più sulla mia scrittura. Mi è sempre piaciuto scrivere testi – è un po’ come scrivere poesie senza aspettative.
TM: Penso che tu sia piuttosto modesto a riguardo, penso che l’album che hai realizzato sia sbalorditivo e per certi versi una conquista. È un pò come quello che fai nei tuoi lavori video.
NM: Sento che questa relazione con il linguaggio da cui ho attinto sia sempre stata lì. Ad esempio, quando ho raggiunto il mio limite con la scultura, mi sono rivolto alla sceneggiatura facendo “parlare” le sculture con l’animatronica. Mi piace la definizione estesa di poeta che dà Jean Cocteau. Posso attingere a tutto questo, alle mie frustrazioni per i concetti di classe e potere che contaminano il mio lavoro, o all’amore per il surrealismo o l’assurdità. Una canzone può essere tutte queste cose.
TM: E una canzone agisce fisicamente sulle persone.
NM: Senza la fisicità non esisterebbe. Un disco è una scultura. È un’incisione fisica. Volevo chiederti ancora sul dipingere immagini che rispecchiano questo momento. Il tuo lavoro reagisce sempre alle condizioni sociali, politiche e culturali, ma non è sempre facile individuarne i dettagli, quindi le persone spesso generalizzano quando parlano del contenuto nel tuo lavoro. In questo caso stai dipingendo riferimenti più diretti. C’è qualche differenza?
TM: Forse, come si noteranno le maschere P95 sul viso. Ma tra qualche anno non mi ripeterò. Quando realizzo i miei dipinti, si tratta sempre della fragilità della figura. Per me non è collegato alla situazione attuale.
NM: Mi viene in mente un’intervista in cui Francis Bacon dice una cosa simile riguardo gli aghi ipodermici e le svastiche. Utilizza questi simboli molto specifici, quasi come segni di punteggiatura che attirano l’attenzione all’interno dei dipinti, ma allo stesso tempo sono probabilmente anche più astratti delle figure. C’è un’oscillazione tra specificità totale e astrazione per quello che invocano. Allo stesso tempo, la maschera che hai dipinto sembra un teschio in questo momento.
TM: Ricorda un corpo.
NM: Sì. Penso che tu stia canalizzando alcuni contenuti abbastanza estremi in modo da renderli eccezionalmente appetibili per persone in un determinato contesto. Tuttavia può essere un orribile presagio?
TM: Non mi interessa la nostalgia della pittura, quel genere di dipinti che si basano sulla tecnica fine a se stessa, o che si compiacciono della rappresentazione. Il quadro dovrebbe avere qualcosa che lo motiva nel presente e in sé – quella sensazione di nascere come opera d’arte, diventare piuttosto che esistere come ciò che è stato. Tu sai bene come funziona la creazione: tutto ciò che è in divenire, è disordinato, è forte. Questa energia può sprigionarsi in un’opera che sta cercando di diventare effettivamente qualcosa che non è stato. E non si tratta di novità, né di una nuova tecnica. Si tratta, invece, di essere realmente presenti con l’opera. Mi sono imbattuta in un saggio sulle città vuote, sull’industrializzazione di fine secolo e sulle città popolate e gli artisti che ne sono disgustati al punto che Odilon Redon indossa occhiali opachi in città, così la realtà non cambierà la sua memoria.
NM: Come se indossasse una sorta di filtro per la realtà esterna?
TM: Sì, e molti artisti hanno scelto di dipingere queste grandi capitali prive di esseri umani, per celebrare la mancanza di presenza umana in questo momento di sovrappopolazione.
NM: Quei romantici devono stare attenti a ciò che desiderano! Stavo giusto registrando un nuovo video di presentazione di una mia vecchia opera, Giantbum (2008), in cui un gruppo di esploratori persi nelle viscere di un gigante stanno morendo di fame e ricorrono al cannibalismo e alla coprofagia, mangiandosi, defecandosi addosso e ricostruendosi. Ma il vero horror nel copione è quello in cui apprendono che il gigante in cui sono intrappolati non ha un esterno. Non possono fuggire perché non c’è un esterno nel sistema in cui sono bloccati. È un interno permanente. L’ho scritto per cercare di riflettere sul modo in cui stavamo accettando queste realtà ermetiche, mediate, sulla scia dell’Iraq e della politica. Sono passati dodici anni e il mio personaggio peggiore in quel video – un “Pere Ubu” coprofago – è meno mostruoso di Donald Trump. È come quando parliamo con Paul McCarthy – c’è stata un’osservazione, che credo abbia fatto Bruce Hainley, per cui nel corso del tempo il mondo è diventato più simile a quello di Paul. E allora dove va a finire un artista?
TM: Mi chiedo se ti fa odiare il tuo lavoro, perché adesso è ancora più reale.
NM: Penso che non si possa andare oltre. Non può essere un gioco inflazionistico. O si?
TM: Creare un’opera in queste circostanze, è molto difficile, lo è proprio essere coscienti, o consapevoli di dove qualcosa inizia e dove finisce. A parte il fatto che penso che il mio lavoro si nutra di una carica emotiva. A volte si tratta di iniziare qualcosa e trasferirla nell’opera, o rilasciarla mentre si lavora. Il che non è molto frequente, ma penso sia questo il modo di avvertire che sta succedendo qualcosa di eccitante – quando c’è un riverbero del dipinto che torna a me. Ma torniamo alla musica, tanto tempo scorre attraverso.
NM: Non pensi che la musica sia un fattore scatenante per qualcosa che è già presente?
TM: Oh sì, assolutamente. Penso che per gli artisti il più delle volte si tratti di sublimazione.
NM: Questo è il punto in cui in molte interviste con te si perdono. La gente cerca di fare domande che somigliano a brutte versioni di “Da dove viene tutto questo?”
TM: È davvero interessante: mentre stiamo parlando ti guardo e tu indossi una maglietta che abbiamo ricevuto da un nostro amico artista Mr. Fulton Washington. Non è una svolta questa? Quella t-shirt è un suo dipinto. Era in prigione, ha iniziato a dipingere, da autodidatta, un quadro di Obama che gli concedeva la grazia e poco dopo è successo. È un’artista brillante. Quando parliamo di dipinti dice sempre che gli vengono in mente solo immagini. Credo che per molti pittori le immagini provengano dalla loro mente, dal loro cervello. Ho sempre sentito particolarmente questa idea di Nabokov, per cui un’opera d’arte o una finzione è come un problema di scacchi. Il problema non è tra gli elementi del quadro. Il problema è tra il dipinto e lo spettatore.
NM: Sì, ma questo è uno sforzo troppo grande per la gente.
TM: Non credo. Penso solo che le persone non abbiano abbastanza fiducia in se stesse, per considerarsi detentori dell’opera d’arte, ma che sentano di dover ricevere una chiave d’accesso all’opera.
NM: Sono d’accordo con te, in realtà scherzavo. Penso che sia per questo che le grandi opere d’arte non abbiano risposte: continuano a generare informazioni, dissonanze cognitive, fino all’eternità. È vero con opere d’arte che hanno già centinaia, migliaia, o quarantamila anni nel caso di arte rupestre. Quindi sono totalmente d’accordo con te, osservavo solo che la gente continuerà a porre domande banali.
TM: Penso che l’idea della morte sarà molto più presente e che sarà più difficile rappresentarla in un’opera d’arte. I media ti fanno sentire come se ti stesse bussando alla porta, è questo il punto. Stavo pensando a questo. A Solaris di Lem e all’acqua, all’onda…
NM: Già…è quasi come essere in Stalker di Tarkovsky. Quest’idea di questa entità o presenza, e che non siamo del tutto al sicuro… Solaris potrebbe essere un punto di riferimento migliore. La gamma di possibilità in relazione a questa entità che può ucciderti nel modo più estremo, solo se sei vecchio, ma forse anche se sei giovane. E potresti averla o no, saperlo o no. È quasi la somma di tutte le fantasie escatologiche occidentali sulla morte virale. Con questo non sto assolutamente sminuendo la realtà – la gente sta morendo e questo è reale – ma semplicemente osservo che c’è questo enorme spazio tra i fatti e ciò che viene veicolato attraverso i social network e i media. Non credo che la percezione di questa pandemia fosse stata identica a quella odierna, all’inizio degli anni ’90 o in un periodo precedente.
TM: Quest’idea che con i social media il pubblico stia amplificando tutto, e che le politiche si basano sulla pressione del pubblico attraverso loro dinamiche è interessante. Quasi lo rende più democratico. Penso che questi governi capovolgeranno abbastanza rapidamente la narrazione sul Coronavirus per sostenere questo nazionalismo populista (per esempio chiamandolo il “Virus cinese”) quando in realtà la risposta è stata così debole proprio a causa di questo abbandono della cooperazione internazionale e di tutte le agenzie federali che avrebbero potuto lavorare insieme.
NM: Sì, questo dimostra totalmente la fallacia del populismo nazionalista e in realtà qualsiasi narrazione politica che neghi la società o uno spazio umano più grande in cui tutti noi esistiamo. Ho sempre amato quella citazione di Mark Fisher, per cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Ma d’altra parte se il capitalismo è un’automobile, sembra che basti solo un chiodo per metterlo in crisi. E ciò a cui stiamo assistendo ora con questi salvataggi è una forza inimmaginabile che si attiva per far sì che tutto questo rimanga intatto.