La storia della mostra di Daniel Buren alla GAMeC è la storia di un paradosso. Poco più di un anno fa, Bergamo era un’altra città; il mondo intero era un altro mondo rispetto a quello che conosciamo oggi. La Bergamo di allora aveva iniziato a lavorare a un progetto espositivo per la primavera 2020, invitando uno dei più noti artisti internazionali a lavorare nella Sala delle Capriate del Palazzo della Ragione – sede estiva esterna della GAMeC per il terzo anno consecutivo. Daniel Buren è, innanzitutto, uno degli esponenti storici della cosiddetta “Institutional Critique”: attitudine programmatica all’interrogazione estetico-artistica, teorica e politica delle istituzioni espositive e dei loro codici, nata sul finire degli anni Sessanta e figlia dell’Arte concettuale (oltreché, naturalmente, degli irripetibili cambiamenti culturali dell’epoca). Quella di Buren – così come di Marcel Broodthaers, o di Hans Haacke – è stata fin da subito una procedura critica svolta letteralmente dall’interno dell’istituzione, basata su una modalità di formalizzazione nuova: la ‘site-specificity’ – ovvero, la contestualizzazione diretta dell’opera all’interno dell’ambiente che la ospita. L’artista lavora in prima persona ‘in situ’, interroga direttamente il contesto fisico e culturale in cui l’opera va a inserirsi. Una progettualità rigorosamente in presenza. E qui nasce la paradossale unicità di questo progetto: la pandemia che ha travolto il mondo (e che, ironia della sorte, ha avuto proprio in Bergamo il suo primo epicentro occidentale) ha imposto a vari livelli un modo di lavorare a distanza, in assenza – l’esatto contrario di quello che Buren, nella sua lunga carriera artistica, ha sempre perseguito. Eppure, la realizzazione del progetto (seppur posticipata di qualche mese) è stata fortemente voluta sia dall’artista che dal museo, non soltanto in risposta all’umano impulso di rinascita che pervade in questi mesi l’Italia ma anche per tenere fede a un appuntamento espositivo importante per la città e per i sostenitori privati del progetto. Grazie a un serrato confronto virtuale con Lorenzo Giusti, direttore della GAMeC e curatore della mostra, è possibile oggi visitare un allestimento perfettamente in linea con il profilo artistico di Buren: armonico rispetto all’ambiente e prevalentemente, appunto, in situ. Si tratta di una serie di ventiquattro pannelli disposti in dittici, composti da tessuto realizzato in fibre ottiche e montato su telai metallici. Nel suo costante confronto con le nuove tecnologie, l’arista francese ha incominciato qualche anno fa a utilizzare pannelli di questo tipo – ottenendo un risultato fedele alla propria pratica artistica (il tessuto con disegni geometrici, la riga in particolare, è fin dall’inizio la base della sua grammatica) ma al tempo stesso radicalmente nuovo. I lavori, ciascuno serigrafato con motivi di colori diversi su fondo bianco, diventano corpi luminosi autonomi e illuminano lo spazio affrescato della Sala con una eccezionale presenza scultorea. I colori scelti – arancio, azzurro, giallo, rosso, verde e viola – creano pattern cromatici solo apparentemente decorativi: di fatto, l’intero spazio viene completamente riletto e rimodulato con un’attenzione profonda, difficile da immaginare per un artista che non ha mai visitato la Sala ma si è potuto basare soltanto su piante e fotografie. Eppure, se la distanza è stata richiesta da un momento storico d’eccezione, ecco che forse l’intera installazione diventa un progetto molto più ‘specifico’ di molti altri. Saper leggere un contesto significa anche saperlo cogliere nella sua unicità storica e culturale. E allora, il paradosso di questa mostra è infine soltanto apparente. L’istituzione, la città che la ospita, e il loro dolore in un momento senza precedenti sono state criticate, lette e comprese molto meglio di quanto ci si potesse aspettare all’inizio del progetto stesso.