Nel febbraio del 1980 Lorenza Trucchi intervista Lea Vergine sulla mostra “L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche” (Palazzo Reale, Milano 16 febbraio –13 aprile 1980).
LT: Quali sono stati i criteri di scelta? Perché ti sei fermata al 1940?
LV: Mai sentito parlare della guerra? (…)
LT: Dimmi qualche nome di artiste degno, secondo te, di stare accanto a quelli di Picasso, De Chirico, Klee, Matisse, Boccioni, Mondrian, Duchamp.
LV: La domanda rende indegni gli artisti citati. (…)
LT: C’è un rapporto diretto tra il movimento femminista e la tua mostra?
LV: Rovescia la domanda e avrai la risposta.
LT: Non pensi che l’emarginazione, la lotta clandestina, la differenza contro le quali molte di queste artiste hanno dovuto lottare siano state anche una condizione di stimolo, dura ma alla fine vitale?
LV: Come hai ragione! Sto piangendo.
LT: Hai trovato donne vanitose, presuntuose, arriviste, aggressive, tali da farti rimpiangere il tuo lavoro?
LV: Tu mi stai domandando se ho incontrato donne il cui ideale era imitare i nostri colleghi maschi, critici e giornalisti?
LT: Hai intenzione di fare un’altra mostra per le artiste dopo il 1940 o pensi, che per ora, “basta con le donne”?
LV: Cara Lorenza non so come son riuscita ad evitare la sfortuna di essere maschio. Non succede a tutti.
Il botta e risposta con Lorenza Trucchi spiega, più e meglio di quanto possano fare le mie parole, la qualità tutta particolare dell’intelligenza di Lea Vergine: l’ironia della sua penna affilatissima, la finezza di pensiero, il coraggio di guardare in direzioni dove gli altri ancora non guardano. Ieri, a distanza di un giorno da Enzo Mari, suo marito e compagno di vita, Lea Vergine ci ha lasciato. La pandemia ha spento una delle più autorevoli e lucide voci della critica d’arte italiana del Novecento, di certo la più graffiante e la meno compromessa con le logiche di mercato. Approdata giovanissima all’arte, Lea Vergine esordisce con una mostra su Lucio Fontana, i suoi interlocutori privilegiati all’epoca erano Eugenio Battisti e Giulio Carlo Argan. È quest’ultimo a presentarle Enzo Mari, con il quale si trasferisce a Milano, dove vive con slancio la nuova stagione politica del ‘68. Alla Galleria Milano, nel 1969, cura la mostra “Irritarte. Appunti per una analisi delle comunicazioni irritanti”: nel progetto sono già evidenti i primi segnali di quell’interesse per i legami tra arte e psicoanalisi che, pochi anni più tardi, sarà al centro di uno dei suoi libri più fortunati, Il corpo come linguaggio (La “Body-art” e storie simili) edito da Prearo nel 1974, pietra miliare nel dibattito internazionale sulla performance. Ma è nel 1980 con la già ricordata mostra “L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche” che Lea Vergine segna una cesura rispetto al passato e imprime un segno fortissimo nella storia dell’arte italiana del XX secolo: dopo la sua mostra, i critici che si ostinano a non volere fare i conti con la rimozione storica subita dalle donne (e ahimè in Italia sono stati e sono ancora tanti) non hanno più scuse plausibili. Lea Vergine ha illuminato quel “lazzaretto di regine” che la storia aveva provato a nascondere e ne ha mostrato la potenza rivoluzionaria. Ha studiato il lavoro di pittrici e scultrici “ormai ignare di se stesse” – come scrisse Giorgio Manganelli – con cura e passione commoventi. Quello di Lea Vergine è un gesto d’amore e, come l’amore, è sovversivo. Lea Vergine non si sottrae: sceglie di lavorare a fianco delle artiste, e lo fa consapevolmente e da intellettuale fine quale è. Non abdica al suo ruolo di critica d’arte, ma ne rimette in discussione il senso, con le parole e con i fatti. Rifiuta l’appiattimento di quella parte della critica che, ieri come oggi, fa sfoggio della propria debolezza di pensiero limitandosi a collezionare ed esporre materiali d’archivio: “Il critico vive oggi”, scrive Lea Vergine su Nac nel 1971 – “in uno stato profondamente conflittuale, sente che resocontare un gesto o emettere un “parere di valore” è del tutto insignificante rispetto alla dimensione dei problemi di fondo: reagisce proclamando le sue insufficienze, quasi ammettendo di non essere altro che la controfigura dell’artista, si gratifica con l’ostentazione del proprio atteggiamento dimissionario”. La nozione di “critica acritica” è estranea al pensiero e soprattutto alla pratica di Lea Vergine, che per oltre sessant’anni si è impegnata in un’azione di critica “partiale, passionnée, politique”. È il suo sguardo soggettivo, appassionato e politico che ci mancherà.