Nel 2016 Beth B, videomaker di punta della scena new wave americana, gira un documentario sulla madre, la pittrice Ida Applebroog. Una svolta tematica imprevista nella propria carriera cinematografica, che però non tradisce il linguaggio sfrontato, quasi abrasivo dei film precedenti. Call Her Applebroog (2016) ripercorre la vita dell’artista americana, mettendone in risalto un’attitudine combattiva e senza eroismi. Vediamo Applebroog dileggiare la smania interpretativa della critica d’arte, o puntare lo sguardo verso la camera e chiedere alla figlia/regista “to leave her alone”. Dal video emerge una tensione tra intimità ed estroversione, il desiderio di gridare al mondo verità scomode, e al tempo stesso il bisogno di reclamare uno spazio tutto per sé. “Leave me alone” – per l’appunto.
Una simile tensione distingue la storia del corpus di disegni Mercy Hospital realizzati da Applebroog durante il suo ricovero psichiatrico nel 1969. Dopo essere stata dimessa, l’artista sigilla i disegni in una scatola, e se ne dimentica fino al 2009, quando un’assistente li ritrova accidentalmente nel suo studio. Esposti per la prima volta da Hauser and Wirth nel 2017, la serie Mercy Hospital si trova ora al Freud Museum di Londra. La lunga dimenticanza di Applebroog parla di un desiderio inconscio di mettere da parte un periodo di malessere, ma anche della finalità terapeutica e non espositiva della serie. Una frase scritta a matita su uno dei disegni suggerisce questa direzione: “A day of no sense; drawings of no sense; keep drawing, painting, working [. . .] is this what keeps me alive? Or is this what makes me so ill”. Il disegno ha una doppia funzione: se da un lato è farmaco, distrazione, intrattenimento, dall’altro è una dimostrazione del proprio dolore, da sigillare in una scatola.
Nelle pagine dello sketch book che documenta il ricovero, Applebroog disegna a china composizioni organiche che poi dipinge ad acquarello. Il colore è tenue e spesso smargina dalle forme, creando un effetto di sospensione e incertezza. Vi è un un leitmotiv anatomico in tutta la serie, una presenza implicita del corpo umano, che tende a confondersi nel groviglio di forme esili sullo sfondo. A volte il corpo appare come una sagoma intera, svuotata, allungata; altre è scomposto nelle sue parti principali. In una delle tavole in mostra, la sagoma di una persona si smembra via via che procediamo dalla testa ai piedi con lo sguardo, fino a perdere parti di sé nell’arcipelago di linee circostanti. La linea è centrale nel linguaggio di Applebroog, e in Mercy Hospital fa eco all’incertezza del soggetto e dei colori. Tratteggiata, incompleta, increspata, duplicata, la linea di Applebroog suggerisce uno stato d’animo vacillante, ma anche la possibilità di una trasformazione. In uno dei disegni esposti, accanto a una forma organica dilatata, che ricorda uno stomaco, leggiamo la scritta “…hey, wait for ME!”. Quel ‘ME’, suona come una declamazione, un desiderio imperativo di ritrovarsi e rigenerarsi, passando attraverso un purgatorio di linee e colori.