L’entrata in galleria per la personale di Luca Trevisani da Pinksummer a Genova è un’azione di immersione fisica. Si è avvolti da un ambiente bianchissimo dove la luce determina lo spazio e gli elementi in gioco. Un bianco voluto dall’artista per filtrare il percorso dello spettatore, focalizzando l’attenzione sui singoli elementi da cogliere in un secondo momento. La stanza, quasi nebulosa dal pavimento al soffitto, restituisce un’atmosfera sospesa che coglie le opere, realizzate per la mostra, quali segmenti narrativi in grado di costruire un racconto distopico in cui l’artista mette in atto una ciclicità dell’uso delle cose – in questo caso dell’utilizzo di cibi, frutti e verdure, – che, attraverso gli scarti, riformano un sistema.
La mostra “In Bocca” evidenzia la cura che Trevisani attua nel suo quotidiano e che, dopo un anno in cui le principali condizioni e azioni umane e sociali si sono svolte forzatamente tra le pareti domestiche, l’artista mostra attraverso alcune tracce del suo vivere e del suo mangiare, consumare, rielaborare. Trevisani crea due corpi di lavoro in cui scultura e opere su carta dialogano in uno spazio concettuale comune e condiviso. Quattro grandi carte a parete realizzate grazie all’utilizzo di succhi e residui di frutti e vegetali impressi, strato su strato, come materie e colori: dei “mandala”, come li definisce l’artista, che ricordano la matrice dei “rolli” delle case aristocratiche genovesi, qui però impressi di acido di limoni, arance, o succo di melanzane spremuto come un “inchiostro simpatico” che crea stratificazioni che richiamano un paesaggio di stampo impressionista. I disegni sono posti in relazione a tre raffinate teche in plexiglass, minimali e senza alcun orpello – due sono collocate a terra sopra eleganti plinti in legno di Okumè, mentre la terza è letteralmente sospesa a un lato della galleria. Reliquiari che contengono nature morte, teche di resti ben conservati e fossili: dettagli impreziositi da ciò che l’artista definisce piccoli “piedi” o “cuscini”, che rendono ancora più antropomorfi questi frutti, semi, bucce, involucri e scorze essiccate e bloccate nel tempo. Elementi d’appoggio scavati e realizzati a mano dall’artista e, successivamente, dorati grazie a un lungo processo. Nessuna decorazione: ciò che rimane è la pelle delle cose.
Trevisani racconta di un “metabolismo collettivo” che, non a caso, rimanda al rito quotidiano del cibarsi narrato attraverso una fisicità della materia non solo scultorea, ma fisiologica. Gli elementi derivati dai cibi mangiati dall’artista diventano piccole e grandi sculture, dei corpi che hanno avuto un ritmo biologico e che hanno accompagnato delle azioni quotidiane. Si tratta di un elogio all’attesa e alla sintesi temporale. È un rito di passaggio che si sofferma sulla necessità e l’importanza dei piccoli gesti che, in questo caso, sono necessarie integrazioni del corpo umano. I resti scultorei di zucche, zucchine, pelle di ananas, pomeli, bucce e le stampe indicano una chiara aderenza agli studi che Trevisani ha formalizzato attraverso precedenti opere: da quella linea sinuosa dei disegni delle caverne antiche riprese, ad esempio, in 8° 11′ 13.32″ N 13° 21′ 4.44 (2018), in The Nature of Nature of Nature (Paul Klee ai raggi UV) (2019) o, ancora, nella serie Henri Matisse meets Amedeo Modigliani in a sandy Acapulco (2018).