In che modo un elemento del quotidiano quale una piscina vuota può raccontare con intensità la storia di una città, le sue trasformazioni e idiosincrasie e, al contempo, far scaturire una riflessione sulla persistenza della memoria, il senso dell’abbandono, il desiderio collettivo di un futuro diverso e l’ineluttabilità della storia? La personale di Nazgol Ansarinia “Pools and Voids” alla Galleria Raffaella Cortese di Milano presenta una serie di nuove opere inedite, realizzate dall’artista iraniana nei mesi scorsi, sul tema delle piscine private costruite a Teheran negli anni Sessanta – conseguenza di un piano di urbanizzazione della capitale dell’Iran avviato dalla Victor Gruen Associates su modello di quello di città americane quali Los Angeles – e poi lasciate inutilizzate in seguito alla rivoluzione del 1979, che trasformò la monarchia del Paese in una repubblica islamica sciita.
Ansarinia, nata a Tehran nel 1979 e lì cresciuta – con un background da graphic designer e un continuo interesse verso la teoria critica – ha sviluppato il progetto in mostra a partire da una specifica domanda: Cosa significa avere questi vuoti lasciati intatti per decenni in una città nella quale si cerca di sfruttare ogni singolo spazio per il costruito?
Pensavo da molto tempo al tema delle piscine vuote. Credo che la mia attenzione sia ricaduta su di esse vedendo la piscina dei miei nonni rimanere vuota per molti anni. Quella particolare piscina è anche il riferimento per il mio lavoro site-specific The Inverted Pool del 20191 ma in “Pools and Voids” vado oltre la prospettiva personale e affronto il tema a livello sociale. Sono tornata in città e ho seguito il racconto dei tanti vuoti persistenti, un vuoto inteso come un solido svuotato, non il risultato di cose costruite attorno a uno spazio vuoto, ma costruito svuotando qualcosa.
Così Gaston Bachelard in Psicanalisi delle acque introduce idealmente la mostra: “Dissolvendo le sostanze, l’acqua aiuta l’immaginazione nel suo compito di de-oggettivare e assimilare. L’acqua è l’elemento dei sogni, l’elemento che nell’aiutarci a smaterializzare il mondo oggettivo ci ispira a sognare”. E il fluido, l’acqua, archetipo mnestico portatore di significati simbolici, onirici e psicanalitici, si fa in questo caso solido, materia da stratificare, presente nella sua assenza. L’andamento dicotomico tra positivo e negativo, presenza e assenza, appunto, porta alla mente opere seminali quali A cast of the space under my chair di Bruce Nauman (1965-68), e Ghost o Untitled (One-Undred Spaces) di Rachel Whiteread, rispettivamente del 1990 e del 1995.
Rachel Whiteread, la sua sensibilità e il suo operare su e intorno allo spazio mi ha sempre affascinata da quando ho incontrato per la prima volta il suo lavoro alla mostra “Sensation” a Londra nel 1997.
In Dissolving Substances (2020), che apre il percorso espositivo, costituita da due proiezioni affiancate, l’artista si focalizza sulle superfici di una stessa piscina lasciata vuota per anni. Mentre nella prima proiezione il variare delle superfici nel tempo è accelerato, seppur con delicati passaggi e sfumature, nella seconda una porzione delle pareti della piscina si anima rimandando al movimento dell’acqua. Private Waters (2020) è invece composta da cinquantadue volumi di piscine in resina semitrasparente – delle matrici in scala ricostruite a partire dalla ricerca su documenti municipali – posti su un lungo tavolo, tra rigore formale e classificazione archivistica. Alcuni di essi sono tra loro connessi a generare le sette sculture Connected Pools (2020). Ansarinia ha dato un’altezza a queste opere ibride – ottenute attraverso la stratificazione di più livelli di stucco, il cui colore richiama quello dell’acqua – e, nell’accostarle le une alle altre, le ha trasformate in una sorta di alternativa, utopica, forma di urbanizzazione. L’intera galleria, avvolta nella semioscurità, le pareti e il soffitto dell’ambiente destinato ad accogliere Connected Pools, dipinti in blu scuro, restituiscono l’impressione di trovarsi all’interno di una profonda piscina svuotata.
Nei lavori di Ansarinia – video, sculture, disegni, collage – sono ricorrenti l’impiego della rappresentazione architettonica e l’attenzione all’urbanistica e ai cambiamenti della città. Ma se, in precedenza, l’artista si è concentrata sull’evidenziazione di processi di costruzione/demolizione delle abitazioni e del tessuto urbano, ad esempio in Membrane (2014) – impressione monumentale di una parete mappata dall’artista con uno scanner 3D a ricreare una sorta di modello tridimensionale di un muro reale che tiene in sé traccia di una parte di un precedente edificio distrutto – o nei video Fragment 1 e Fragment 2. Demolishing buildings, buying waste (2017), qui si assiste a una inversione. Protagonisti diventano le tracce, i resti, le persistenze, palesamento di “un desiderio di riutilizzo in un inatteso futuro, ma allo stesso tempo memoria di quando le piscine furono colme di acqua e utilizzate”. Una sorta di atto di sospensione spazio-temporale.
Proprio nell’architettura Ansarinia ritrova un perfetto correlativo oggettivo delle espressioni formali delle relazioni sociali. Su tali relazioni – tra cose, persone e paesaggio urbano nella vita di tutti i giorni, tra dimensione privata, intima e ambiente socio-economico – l’artista insiste fortemente, dal micro al macro e viceversa. In quest’ottica lo spazio stesso è da lei affrontato in quanto “prodotto di complesse relazioni sociali”, riprendendo la definizione di Henri Lefebvre.
Ciò che rende l’architettura un soggetto affascinante con cui lavorare è che tanti aspetti di essa possono essere interpretati metaforicamente. L’architettura come modo di organizzare lo spazio gioca un ruolo importante nell’implementazione del controllo e allo stesso tempo può creare opportunità per stabilire le proprie regole. Essendo la città in cui sono nata e in cui ho trascorso la maggior parte della mia vita, posso affermare di conoscere Teheran meglio di qualsiasi altro contesto. Pur essendo molto particolare, è una megalopoli che condivide problematiche globali comuni ad altri contesti urbani contemporanei e offre numerose tematiche economiche, sociali e politiche complesse cui guardare e da scoprire.
Ansarina interroga e rielabora oggetti ed eventi, la Storia e le storie, minori e parallele, in rapporto alla società iraniana contemporanea per sottolineare le dinamiche intrinseche a un determinato sistema sociale e relazionale prendendone in considerazione le singole componenti, astraendole e riassemblandole al fine di rivelarne l’autentica natura. In generale, Ansarinia porta avanti una indagine sulle modalità in cui le abitudini di una determinata cultura possono alimentare le speranze e le paure delle persone che vivono una frenetica globalizzazione, sebbene, spesso, in maniera asimmetrica, con profonde differenze.
A un livello più personale, essendo mio padre un architetto e un urbanista, immagino che i due soggetti siano sempre stati parte della mia vita e, senza saperlo, ne sono diventata sempre più attratta. I ricordi sono uno dei tanti aspetti da scoprire quando si va oltre la superficie. La superficie delle cose è ciò che inizialmente cattura la mia attenzione, ma a me interessa trovare le relazioni che scorrono sotto di essa, le cui manifestazioni possono essere trovate in superficie. Questo è anche uno dei motivi per cui lavorare a Teheran ha un senso. Ho quaranta anni di memoria personale della città e condivido la sua memoria collettiva.
Due memorie si incontrano e incrociano, quindi: quella personale e quella collettiva. E parlare di architettura assume allora il più ampio significato di confrontarsi con l’idea di struttura – in senso fisico e metaforico – e con l’idea di potere e controllo.