Nel 1926, durante il suo soggiorno a Napoli, il filosofo marxista Alfred Sohn-Rethel inviò alla redazione della Frankfurter Zeitung un breve articolo intitolato Das Ideal des Kaputten. Über neapolitanische Technik (L’ideale del Kaputt. Sulla tecnica napoletana), in cui descriveva il singolare rapporto dei napoletani con gli oggetti tecnici e la resistenza che questi opponevano alla spinta della modernizzazione. “Per il Napoletano” – scriveva Sohn-Rethel – “l’essenza della tecnica sta nella messa in funzione del rotto”.
Antonio Della Corte, artista partenopeo, sarebbe apparso, agli occhi dell’outsider della Scuola di Francoforte, come un caso di eccezione: sebbene la sua pratica artistica non ambisca alla riabilitazione funzionale, le sue opere cominciano a prendere forma proprio quando qualcosa si rompe. L’artista si lascia sedurre dalle geografie del quotidiano, recupera quelle eccedenze urbane cadute in desuetudine détournandone l’uso proprio. Neon, tubi spiralati, canaline passacavi, pignoni tendicatena e scatole di derivazione, Della Corte si appropria degli oggetti e ne libera anarchicamente la forma per seguire l’immaginazione.
Per la sua prima personale – a cura di Vincenzo Di Rosa e supportata dalla Collezione Agovino – non poteva esserci teatro più appropriato di Palazzo Sessa a Cappella Vecchia. Come buona parte dei palazzi napoletani, Palazzo Sessa è un palinsesto sedimentato di storie, culti, sovrascritture, in cui l’identità di apparente degrado e abbandono entra in un dialogo osmotico con i rottami di Della Corte. Sono disseminati ovunque. Si lasciano scorgere o si camuffano nelle scale, nel cortile, sui pianerottoli, sul terrazzo. Nonostante possano essere percepiti nel campo periferico come familiari, gli effetti sulla visione foveale degli arcipelaghi di materia di Della Corte aprono all’esperienza estetica dell’eerie, quel particolare tipo di sensazione che, come scrive Mark Fisher, si prova “quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa”. Untitled 2 (2020) e Untitled 3 (2020), ad esempio, sono due piastre di fissaggio, in alluminio e ferro e in alluminio e plastica, recuperate da un fornetto elettrico o da chissà quale altro elettrodomestico, e che sembrano costituirsi secondo un fallimento di assenza. E così, anche Untitled 4 (2021), un disco parabolico, discernibile solo da alcune bucature della scalinata monumentale, installato al contrario, faccia al muro. Saloon (2020), invece, è una vetrina medica che sembra replicare brutalmente un mezzo busto macchinico in piena vivisezione, in cui cavi elettrici e luci LED si aggrovigliano organicamente, e che fa il paio negli spazi della scala con Spirit Cow Tetris (2020), una centralina elettrica metallica, vuota e illuminata internamente con luci LED, che rievoca la carcassa di un animale.
La mostra continua negli spazi interni della Collezione Agovino. Qui siamo richiamati da una perturbazione sonora discontinua che ricorda gli scatti scricchiolanti di un giocattolo caricato a molla. Si tratta di Untitled 1 (2020), un mulinello elettrico il cui andamento stocastico innesca stati di variazione spaziotemporale continua e impresagibile, quasi fosse un essere vivente. Exit Strategy (2019), invece, è un apparato luminescente composto da un serbatoio ricavato da uno scaldàcqua portatile, poggiato su un foglio prismatico per il miglioramento della luminosità dei display e su un sacchetto nero in polietilene ripiegato. I tagli che l’artista effettua sul corpo polistirenico permettono alla luce riflessa di rifrangere tonalità sempre cangianti.
Le composizioni macchiniche di Della Corte sembrano aprire a un’ecologia di altri mondi possibili, forse imperfetti, forse inquietanti, per un’estetica del rotto nella naturcultura ibrida del munnezzocene.