“Tell me stories!” è una rubrica sulla scrittura, a cura di Manuela Pacella. Uno spazio in cui testi di e su diversi autori indagano la scrittura d’arte, sperimentale, interdisciplinare, creativa e non.
Nella casa dove abito non ho una scrivania. Quando mi sono trasferita qui convivevo con la mia ex e nel desiderio di ottimizzare al massimo lo scarso spazio a disposizione – l’appartamento è piuttosto piccolo – ho deciso insieme a lei di eliminare la mia postazione studio dal soggiorno-cucina, in favore di un tavolo da pranzo più grande che potesse essere utilizzato non solo per mangiare ma anche per lavorare al computer, leggere, prendere appunti. In quel momento la scelta mi era sembrata sensata e così ho venduto (anche se a malincuore) la mia vecchia scrivania in bambù a un’amica.
La casa di cui parlo è la stessa in cui una volta abitava mia nonna. I lavori di ristrutturazione non hanno però lasciato niente dell’abitazione che conoscevo. Solo pochissime tracce conservano la memoria di un altro tempo vissuto dal luogo: una cassettiera bianca, due barattoli in ceramica dipinta che uso per il sale e i biscotti, una pianta di rose rosse in balcone, due gerani e un cespuglio di crassula ovata. Vivere in coppia in uno spazio domestico sostanzialmente privo di zone di privacy ha richiesto un notevole numero di compromessi. È difficile esprimere quanto sia stato per me faticoso rinunciare all’intimità della mia scrivania e al suo disordine antiestetico, che ho sempre considerato una materializzazione del contenuto della mia testa all’esterno.
Anche Kate Zambreno, l’autrice che ho approfondito per questo testo, si trova a dover rinunciare alla sua scrivania a un certo punto della vita, per ragioni diverse dalle mie. Nel suo caso, è la nascita della prima figlia che determina la necessità di una riorganizzazione degli ambienti domestici. Nelle ultime pagine di Drifts leggiamo: “Ho cominciato a evitare l’ufficio, nonostante sia la stanza più fresca […] Faccio una foto alla mia scrivania – i miei Post-it fluorescenti, il libro di Dürer aperto, le cartoline, le fotografie, i quaderni, e la mando a Danielle. Suppongo che presto dovrò rinunciare a questo ufficio per fare la stanza della bambina”1.
Mi sono accorta che in generale lo scrittoio costituisce un’immagine e un luogo che tornano spesso tra le pagine dei libri di Zambreno che ho letto. Penso al Table de travail di Hervé Guibert, con sopra la macchina da scrivere, i taccuini e le pagine manoscritte, catturato nella fotografia in bianco e nero scattata dal fotografo nel 19822; oppure allo studiolo di San Girolamo nell’incisione a bulino di Albrecht Dürer del 15213; o alla descrizione del tavolo di quercia al quale Rainer Maria Rilke lavora durante i mesi passati all’Hôtel Biron a Parigi, nel 19084. Lo scrittoio, cuore pulsante dello studio, simboleggia lo spazio in cui prende forma il pensiero: è il luogo della creazione. Il suo venire a mancare coincide in Zambreno con la maternità e sottolinea l’acuirsi della difficoltà di gestione di una vita da scrittrice già precedentemente precaria. In To Write as if Already Dead, quando la stanza della figlia neonata appare ormai sistemata, vediamo l’autrice a lavoro sul divano del soggiorno, circondata da quaderni e appunti e con il computer in equilibrio precario in cima a una pila di libri5. La scena – che trovo ironicamente familiare – comunica un’instabilità esistenziale e lavorativa. Ma la perdita di uno spazio di riflessione privato è specchio per Zambreno di una ancor più critica carenza di tempo. Più avanti nello stesso libro scrive: “Ho al massimo quindici minuti per scrivere questo passaggio. Questo passaggio non sarà un pezzo di grande letteratura. Dichiarerà forse che esisto anche oggi. Che sono sopravvissuta. Un’ora al giorno, se sono fortunata. Un’ora intera se sono molto fortunata”6.
Kate Zambreno ha quarantacinque anni e due figlie. Insieme a loro e al compagno vive nel quartiere di Brooklyn, a New York, dove arriva dopo aver studiato7 e iniziato a scrivere a Chicago. Il primo libro che pubblica nel 2009 è il romanzo O Fallen Angel, ma raggiunge una certa notorietà negli Stati Uniti soprattutto in seguito all’uscita di Heroines per la collana Active Agents di Semiotext(e), nel 2011. Ad oggi Zambreno ha pubblicato in tutto otto libri; nessuno è stato tradotto in italiano. Per questo pezzo, ho deciso di approfondirne tre, tra quelli usciti in anni più recenti: oltre ai già nominati Drifts (Riverhead Books, 2020) e To Write as if Already Dead (Columbia University Press, 2021), ho letto Book of Mutter, il secondo libro che Zambreno pubblica con Semiotext(e), nel 2017. Mi piaceva l’idea di conoscere l’autrice a partire dai risultati più maturi del suo percorso ma volevo anche intercettare quelle ripetizioni o continuità che spesso legano opere concepite in anni ravvicinati.
Non posso fare a meno di provare un certo stupore nel considerare la possibilità di essere al contempo una scrittrice nel pieno della carriera e la madre di due bambine, senza essere una persona particolarmente privilegiata da un punto di vista economico (presupposto che implicherebbe la disponibilità di una serie di aiuti nella gestione della casa e della famiglia). Non ho mai pensato seriamente all’idea di fare un figlio nella mia vita, ma la questione della ridistribuzione del tempo personale mi sembrerebbe in effetti una grande difficoltà da affrontare – il che riflette perfettamente la tossicità totalizzante che caratterizza certe professioni. Parlando della possibilità di diventare madre con una sua amica, prima di sapere di essere incinta, l’autrice scrive: “Stiamo parlando di tempo e di quello che scegliamo di fare con il nostro tempo”8.
Il tempo è di fatto uno dei temi centrali nel lavoro di Zambreno: il tempo che accade e quello che manca; il tempo in cui avviene l’atto della scrittura e quello generato dalle parole in fila sulla pagina bianca; il tempo interno dei corpi e quello esterno delle scadenze lavorative. Il primo modo in cui si manifesta la dimensione temporale dei libri che ho scelto è nella lunga durata dei processi di gestazione del testo, che in tutti i casi avviene nell’arco di parecchi anni. La lenta lavorazione delle opere è sempre dichiarata dall’autrice, così come la fatica che comporta il processo di scrittura, che raggiunge il suo apice in una meticolosa operazione di ricomposizione delle note e dei frammenti che Zambreno scrive al computer oppure a mano su quaderni e fogli volanti. La pratica dell’annotazione è assunta dalla scrittrice non solo come metodologia di lavoro ma anche come coloritura stilistica e produce nei suoi testi una narrazione – sempre in prima persona – che conserva il tono e l’agilità dell’appunto. Le frasi sono brevi e la lettura scorre veloce mentre le parole intrecciano divagazioni critiche e riflessioni personali, resoconti autobiografici ed episodi della vita di artistз e scrittorз famosз. In To Write as if Already Dead l’autrice scrive: “Ormai è quasi banale collegare l’atto di tessere e di scrivere – intrecciare, lavorare a maglia, cucire. Ma proprio in questo ambito ritrovo qualcosa del modo in cui io elaboro la scrittura – nel tessere insieme e a volte strappare le cuciture. Scrivere per me ha questa funzione tattile: non solo riempie il tempo, è tempo”9.
Ad esempio, il tempo in cui si colloca Drifts è il presente. Nelle prime pagine Zambreno spiega: “Il titolo del libro veniva da una sensazione e io volevo scrivere attraverso quella sensazione. Quello che volevo davvero scrivere era il mio tempo al presente, cosa che mi sembrava impossibile. Come può un paragrafo essere un giorno, o un giorno un paragrafo?”10.
Il termine drifts rimanda a un moto di deriva – to drift significa vagare, vagabondare – ma contiene anche un’idea di accumulazione – come sostantivo drift vuol dire mucchio, pila. Tutto il testo si compie all’interno di un gioco meta-letterario, per cui è il processo di scrittura stesso a rappresentare il nucleo centrale della narrazione – la scrittura e il suo tentativo di catturare il ritmo e la libertà che contraddistingue il farsi del pensiero. Ma Zambreno afferma anche che “forse una deriva [a drift] è una sorta di forma”11, portando in evidenza una questione centrale nella sua pratica: quella della sperimentazione stilistica. È molto difficile usare etichette monolitiche per definire i suoi testi. Ad esempio, potremmo dire che Drifts è un romanzo, To Write as if Already Dead un saggio di critica letteraria e Book of Mutter un memoir, ma non sarebbe sufficiente.
Se consideriamo Drifts un romanzo – assegnazione che consente alla scrittrice di muoversi in una zona franca dove può complicare la relazione tra voce narrante e voce autoriale, tra finzione e realtà – allora dovremmo dire che i suoi personaggi sono Rainer Maria Rilke, Joseph Cornell, Sarah Charlesworth, Franz Kafka, Chantal Ackerman, Diane Arbus, Ludwig Wittgenstein. C’è sempre un’ampia costellazione di riferimenti letterari e artistici ad accompagnare i ragionamenti di Zambreno, che pagina dopo pagina attraversa numerose questioni: si spazia dall’amicizia, alla gravidanza e alle difficoltà lavorative; dalla fotografia al saper guardare. Uno dei temi principali è sicuramente quello del rapporto con il mondo animale, che viene incarnato dalla relazione tra l’autrice stessa e il suo black terrier Genet. Oltre a Genet, compaiono nel testo il barboncino di Lou Andreas-Salomé, un piccolo gatto randagio, il cane ritratto in una foto di Peter Hujar e altri animali ancora, che nel girovagare dei pensieri dell’autrice si fanno testimoni di un diverso modo di assistere al succedere della vita, al di là e al di fuori di una forma di scansione umana del tempo.
Mentre leggevo alcuni passaggi del libro ho pensato alla mia amica Margherita, che sta scrivendo un film che racconta la storia del legame affettivo tra un uomo e un asino e che in questo periodo se ne va spesso al parco della Caffarella per osservare un vecchio somaro che vive lì. Mi ha raccontato che quando va a trovarlo, si porta dietro un mazzo di carote da offrirgli e passa ore intere a filmarlo e a prendere appunti. Io invece divido gran parte delle mie giornate con Gianna, la giovane gatta arrivata in questa casa qualche mese fa. Nelle giornate lavorative più faticose, la osservo con invidia dalla mia postazione computer al tavolo del soggiorno, mentre dorme serafica. Uno dei posti dove le piace riposarsi, soprattutto nelle mattine assolate, è il grande vaso circolare che contiene la pianta di rose di mia nonna.
Una parte della critica ha messo in evidenza come in Drifts Zambreno riesca a catturare un modo di fare esperienza del tempo nella solitudine che lascia risuonare con precisione, anche se involontariamente12, la condizione sperimentata dalle persone durante i periodi di isolamento causati dalla pandemia Covid-19. Mia nonna è morta l’11 marzo 2020, ovvero due giorni dopo l’inizio del primo lockdown in Italia. Se n’è andata tutto sommato serenamente, mentre dormiva nel suo letto, ma è stato molto doloroso soprattutto per mia madre doverla salutare senza potere organizzare dei funerali con parenti e persone a lei care, a causa delle restrizioni imposte per contenere il contagio. Nelle settimane successive alla sua scomparsa, mia madre ha continuato a venire in questa casa regolarmente, nonostante i divieti di circolazione, per innaffiare le piante e tenerle rigogliose, come se in esse più che in ogni altra cosa si conservasse il ricordo della presenza di mia nonna. Quando suo fratello ha manifestato il desiderio di vendere l’appartamento, mia madre ha deciso di comprare la sua parte, non volendo lasciar andare questo pezzo di storia familiare. È così che in piena pandemia, dopo anni di convivenze e affitti, mi sono ritrovata proprietaria di una casa, mentre perdevo il lavoro perché la galleria dove ho lavorato per anni chiudeva i battenti.
Una parte di To Write as if Already Dead è stata scritta proprio in piena emergenza sanitaria e le pagine finali del libro registrano in presa diretta le prime fasi di diffusione del virus: le misure di sicurezza, il nuovo lessico, le teorie complottiste, il disorientamento. L’esperienza del Covid-19 è evocata da Zambreno come termine di paragone nel contesto della narrazione di un’altra pandemia, quella di AIDS della seconda metà degli anni Ottanta, che è invece al centro del testo. To Write as if Already Dead nasce infatti come uno studio sul romanzo All’amico che non mi ha salvato la vita di Harvé Guibert, un’opera redatta dal fotografo e scrittore francese nel 1990, poco dopo aver ricevuto la diagnosi che lo conferma malato di AIDS. Il libro è una delle prime testimonianze letterarie in cui il decorso fisico e psicologico di questa malattia viene raccontato in prima persona e con estrema crudezza, attraverso la lente della finzione.
Quando viene pubblicato, All’amico che non mi ha salvato la vita diventa immediatamente un caso editoriale in Francia, anche perché nelle sue pagine Guibert rivela inaspettatamente la vera ragione della morte del famoso filosofo Michel Foucault, suo caro amico, ugualmente affetto da AIDS. Uno degli aspetti che maggiormente interessa Zambreno di questo testo è proprio la schiettezza di modi e toni con cui l’autore riesce a raccontare non solo la verità della malattia ma anche le contraddizioni e i non detti di una rete amicale che è anche un milieu culturale. Mentre analizza il lavoro di Guibert, l’autrice ne replica il meccanismo, raccontando a propria volta le vicende, le amicizie, le dinamiche lavorative del mondo editoriale di cui lei fa parte.
Come negli altri libri che ho letto, anche in questo la scrittrice sottolinea la lunga elaborazione del testo: “Pensavo di poterlo scrivere velocemente in quei primi mesi. Mi ci sono voluti quasi due anni prima che potessi anche solo iniziare a processarlo mentalmente. Ora mi sono data una scadenza, tra le scadenze del mio corpo”13. Il corpo affaticato, sofferente, esausto è l’orologio che scandisce il tempo della scrittura nelle pagine di To Write as if Already Dead: il corpo malato e indebolito di Guibert, che negli ultimi mesi di vita scrive con impeto, remando contro lo scivolare via di un futuro che viene a mancare; e il corpo della scrittrice, alla sua seconda gravidanza, che esibisce tutte le fragilità e i disagi che accompagnano i mesi di gestazione – i problemi al seno, la diarrea, le emorroidi e così via. Zambreno commenta con franchezza la scelta di accostare due condizioni fisiche così radicalmente diverse, scrivendo: “Non voglio sostenere che il mio sfinimento sia vicino o sfiori anche solo lontanamente quello di un malato di AIDS. Voglio solo descrivere il mio corpo esausto al lavoro, che si trova a scrivere in una stanza, mentre contempla lo sfinimento e la malattia di un altro corpo, che si trova a scrivere in una stanza”14.
Credo che sia in Guibert che in Zambreno la scrittura assuma due funzioni fondamentali, anche se in relazione a contesti diversi. Per prima cosa, scrivere si presenta come un modo per affermare l’esistenza di un soggetto e di un corpo: un corpo eccedente, che si rifiuta di attenersi agli standard di pudore e discrezione imposti dalla società – “c’è un rifiuto di vergognarsi, di essere riservato o modesto”15, dice Zambreno in riferimento a Guibert. Ma allo stesso tempo scrivere a volte è anche un mezzo “per dimenticare, per purificarsi, per non ricordare”16: serve a sbarazzarsi del peso di qualcosa con cui non ci si può confrontare, qualcosa che rischia di annientarci, come se quel pezzo di vissuto depositandosi sulla pagina bianca potesse smettere di infestare i nostri pensieri. In Book of Mutter, il libro sulla perdita della madre al quale Zambreno lavora per anni, l’autrice scrive: “Mettere questi ricordi in un libro, per liberarmene. Questi tredici anni. Come un’offerta sacrificale. Seppellire questi ricordi nella terra. Scrivere come tecnica non per ricordare ma per dimenticare. O, se non per dimenticare, per tentare di lasciarsi alle spalle qualcosa”17.
Book of Mutter è un lavoro che esplora la dimensione della memoria e dell’assenza e si colloca in una temporalità instabile, che si protende dal presente verso il passato. La narrazione ripercorre la malattia della madre di Zambreno e ricompone frammenti della sua storia familiare in un mosaico che rimane imperfetto. Come in Drifts, anche in questo caso il testo include molti riferimenti artistico-letterari – a Henry Darger, Virginia Wolf, Roland Barthes, Louise Bourgeois e altrз – ma soprattutto, le pagine del libro sono costellate da numerosissime descrizioni di foto familiari, in cui compare Zambreno stessa da bambina o la madre ancora ragazza. Come Barthes in La camera chiara, anche la scrittrice insegue la figura materna attraverso queste vecchie fotografie, nel desiderio impossibile di afferrare “la verità del volto che aveva amato”18.
Pensando a quanto affermato da Zambreno riguardo il tentativo di “depositare dei ricordi in un libro al fine di liberarsene”, mi è tornato in mente qualcosa che anche Joan Didion scrive in L’anno del pensiero magico, un testo che sono finalmente riuscita a leggere solo pochi mesi fa. In uno degli ultimi paragrafi del libro, che ricostruisce le vicende legate alla morte del marito e alla grave malattia della figlia, Didion afferma di rendersi conto di “non voler finire questo racconto”19. Non vuole finirlo perché sa che chiudendolo avrà in qualche modo concluso il processo di elaborazione del lutto e dovrà lasciar andare il vivo ricordo del compagno. Come in Zambreno, anche in Didion la scrittura è vissuta come strumento di espressione e trasformazione del dolore in altro. Ma se in L’anno del pensiero magico vi è un resoconto che fa progressivamente ordine tra i ricordi e che si conclude affermando con dolorosa lucidità che è necessario lasciare andare i morti per continuare a vivere20, in Book of Mutter l’autrice sembra non trovare pace. Zambreno denuncia la memoria come “storia impossibile”21, esistente solo all’interno di un esercizio di continua scrittura e riscrittura: in un incessante e tormentato borbottare22 pezzi di parole e narrazioni apocrife.
Book of Mutter è sicuramente il più frammentario tra i testi di Zambreno qui impilati accanto al mio computer. Le sue pagine sono piene di spazi bianchi e di silenzi e in esso, ancor più che negli altri due, l’autrice sottolinea l’angoscia provata nel cercare di venire a capo dell’impresa di scrittura. Devo ammettere che mi è capitato di sentirmi a volte quasi infastidita dal tono lamentoso che a tratti emerge dalle sue parole. E tuttavia, credo che proprio in questa sua esposta insicurezza risieda uno degli aspetti più interessanti del suo lavoro, ovvero la sua capacità di confrontarsi apertamente con la paura di non farcela, con la possibilità del fallimento e con il dubbio: aspetti che fanno sempre parte del processo creativo, ma che raramente si trovano dichiarati nero su bianco. Le lamentele di Zambreno non sono fatte con ingenuità ma intenzionalmente e, rompendo il falso mito della scrittura ispirata che si compie per vocazione, puntano piuttosto il dito alla grande quantità di impegno e di tempo che richiede l’elaborazione di un testo.
Ho impiegato diverse settimane per preparare e completare questo pezzo. Facendo più lavori contemporaneamente, come tipico della mia generazione precaria, non ho mai modo di prendermi giornate intere per scrivere. Posso farlo solitamente nei ritagli di tempo oppure la sera, quando non sono così stanca da addormentarmi subito dopo aver cenato. Mi accorgo solo ora di quante cose sono successe in queste settimane, mentre scrivevo: le partenze, gli incontri, la primavera, le riunioni, i bicchieri di vino, le scadenze, i libri che volevo leggere e non ho letto, le sedie su cui sono stata seduta mentre cercavo di fare ordine tra i miei pensieri, i ritorni, le cene con consegna a domicilio, le domande senza risposta, le persone che sono passate a trovarmi, i nuovi progetti, le persone che sono uscite dalla porta di questa casa, che sono andate via. Il tempo si è depositato tra le righe di questo testo, come tra le stanze dell’appartamento in cui vivo, che oggi è particolarmente silenzioso. Qualche giorno fa si è concluso esattamente un anno da quando mi sono trasferita qui.
C’è una foto del 2014 in cui si vede mia nonna sorridente, in piedi, in balcone, accanto alla rosa. La vestaglia blu, gli occhi chiusi, stringe tra le mani un fiore e lo annusa. La sua pianta è fiorita anche quest’anno, i primi boccioli rossi si sono aperti all’inizio di aprile. Conosco quell’odore eppure continua a stupirmi ogni volta che lo assaggio. È vellutato, fresco e penetrante. Chiudi gli occhi: riesci a sentirlo?