Attualità di Fontana? di

di 28 Novembre 2022
Lucio Fontana, Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, 1951. Tubo di cristallo con neon bianco. Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano

Fontana è stato un profeta? Sicuramente si è dimostrato uno dei più grandi artisti del nostro dopoguerra, se non il più grande. Forse non ha inventato niente, ma ha capito prima degli altri quali fossero le eredità da conservare.

“Fontana prima faseia i büs, adesso el fa i tai, e adesso el rompe i ball”1.

È lo stesso Fontana che riporta, divertito, la boutade che correva tra la borghesia milanese ai tempi in cui iniziò le nature: sapeva che le sue opere avevano sempre lasciato esterrefatto un certo pubblico, e lui ancora a provocarlo, contrastando col suo lavoro l’aria di tradizionale eleganza che la persona emanava. Era un altro l’isolamento che non smise mai di pesargli, quello per cui certa critica non gli voleva riconoscere il primato su molte operazioni degli anni Sessanta, svolte soprattutto in America, e considerava più agile farne un tardo dadaista che, con gesto di spregio, nega la tela forandola: “È molto più importante la mia scoperta che quella di Pollock”, si difendeva con la consueta parlata impulsiva. “Siccome non abbiamo i miliardi per fare il lancio, siamo sempre sottoprodotto degli americani… E poi, se la fanno loro, allora si dimenticano di tutti, dice che tu hai copiato e che loro ti han dato le idee… E noi purtroppo, li, da provinciali, diamo ragione a loro e fan tutto loro, e via. E gli italiani…”2.

Fontana rivendicava a sé scoperte e sperimentazioni di cui solo in questi ultimi anni un vasto movimento di critica sta riscoprendo il valore, forse anche con qualche esagerazione, visto che c’è chi vuol farne un antesignano della Pop, dell’Arte Concettuale, persino della Transavanguardia3. Non sempre è facile, del resto, determinare la sua sfera di influenza e distinguere tra i casi in cui l’artista italo-argentino fu maestro, quelli in cui fu compagno di strada e quelli, sicuramente i più numerosi, in cui fu solo un formidabile anticipatore: se infatti la sua estrema socievolezza ha dato luogo a una serie di relazioni personali che sfugge a una enumerazione precisa, la scarsa notorietà data dagli organi di stampa alla sua produzione artistica, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti, restringe la possibilità che il suo influsso si sia esplicitamente e direttamente esercitato sull’opera di molti artisti posteriori. Sta di fatto che, come vedremo, la sua capacità inventiva e predittiva si è dimostrata incredibile.

Lucio Fontana, Ambiente Spaziale a Luce Rossa, 1967. Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano.

Il gesto

“Non ci interessa che un gesto, compiuto, vivo un attimo o un millennio, perché siamo veramente convinti che, compiutolo, esso è eterno”4.

Lucio Fontana non ha mai amato che si insistesse sulla natura gestuale del suo lavoro. Eppure basta guardare l’Uomo Nero (1930), o la Bagnante (1933) o gli Amanti (1933) per accorgersi che il primo scatto verso l’autonomia dai modelli accademici avviene attraverso il gesto, che lo allontana dal classicismo alla Maillol e lo immette nel clima espressionista. Negli anni immediatamente successivi questo gesto assume anche carattere di segno automatico di derivazione surrealista, che, combinato all’abbandono della figurazione per l’astrattismo più deciso, condurrà Fontana a episodi di chiaro precorrimento informale. Le sue ceramiche in gres, modellate ad Albisola, possono prefigurare i graffi di Hartung e la materia manipolata di Fautrier (1935-’36); le due sculture Uomo Atomico e Scultura Spaziale del 1947 precedono i risultati informali del gruppo di scultori inglesi Butler, Paolozzi, Turnbell, Chadwick; ma, soprattutto, i fregi dell’edificio Zanuso-Menghi in via Senato a Milano (1947) precorrono il tema del muro grafito sviluppato molti anni dopo da Antoni Tapies.
La potenza del gesto resterà un punto di riferimento, per Fontana, anche negli anni successivi. Lo testimoniano i barocchi, tutti pieni di impronte e ditate (’54-’57), gli inchiostri psicografici (’57-’58), le nature con le loro superfici magmatiche (’59-’60), i buchi ad olio (’60-’68) oscillanti tra sensualità e violenza, e le decise forature dei metalli (’61-’65). Sta di fatto che dalla scoperta del buco in poi (1949), alla matrice espressionista e surrealista del gesto se ne aggiunge una terza, quella provocatoria e dadaista. Anche se lo scultore ha sempre insistito molto sulla sua volontà di costruire e non di distruggere l’opera, nel compiere questo oltraggio alla superficie è chiaro che deve aver partecipato una consapevolezza duchampiana e “sacrilega”. Ecco che allora il gesto diventa soprattutto atto dimostrativo, comportamento rivelatore.
Si tratta di una dimensione peraltro connaturata al lavoro di Fontana, non a caso costellato di manifesti e prese di posizione pubbliche; e che si era già intravisto nel 1946, quando in concomitanza con la stesura del Manifesto Bianco l’artista e i suoi allievi tentarono di organizzare una pubblica manifestazione in Buenos Aires con dipintura dei muri: un atto che naturalmente proveniva da un germe futurista o addirittura scapigliato, ma che oggi non può non far pensare anche a Fluxus, con cui forse Fontana fu in contatto grazie a Manzoni e Klein, e al periodo delle performances5. D’altronde sono evidenti alcune assonanze tra passi del Manifesto Bianco in cui si inneggia all’estensione dell’arte oltre la tela e i mezzi tradizionali, al fine di avvicinarla all’esistenza reale, e le parole di Kaprow sul significato dell’happening6.
Per finire, il gesto in Fontana assume, a partire dai primi tagli (1958), un carattere ancora nuovo: se infatti anche nel taglio è chiara la matrice surrealista (in quanto segno psicografico e scrittura automatica — ne fa fede la nascita dei primi tagli dagli inchiostri, che erano appunto esercizi in questo senso), l’artista ha più volte dichiarato di aver bisogno di una particolare concentrazione per eseguirlo; le fotografie di Ugo Mulas sono a questo proposito illuminanti. La descrizione dell’atto del taglio è molto vicina alla descrizione degli atti zen (tipico il caso del tiro con l’arco), filosofia con la quale Fontana potrebbe essere venuto in contatto attraverso il lavoro del gruppo Gutaj e la frequentazione con Yves Klein. L’atto ko-tzu, l’azione spontanea e perfetta che nasce dopo un esercizio di anni, sarà poi al centro di numerose esperienze artistiche degli anni Sessanta e Settanta di marca, generalmente, concettuale.

Lucio Fontana, Ambiente Spaziale a Luce Rossa, 1967. Veduta della mostra “Ambienti” presso Pirelli Hangar Bicocca, Milano (2017-18). Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano.

L’ambiente

“Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all’infinito, in infinite dimensioni, le linee d’orizzonte. Esse ricercano una estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non è più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica”7.

La realizzazione ambientale a luce nera di Wood, esposta da Fontana nel 1949, non è stata un exploit casuale: lo dimostrano i ritorni molteplici dell’artista sul medesimo tema e l’esplosione dell’arte ambientale durante tutti gli anni Sessanta e Settanta. Quel primo ambiente era stato realizzato dopo una lunga frequentazione di Fontana, in veste di scultore, con l’architettura di interni e di esterni: tra il 1933 e il 1947 aveva collaborato con architetti quali Banfi, Belgiojoso, Peressutti e Rogers, con Figini e Pollini, con Albini, Gardella, Palanti, e infine con Zanuso e Menghi.
Ma sul finire degli anni Quaranta, dopo la proclamazione del Manifesto Bianco e di altri documenti spazialisti, non si trattava più di decorare o arredare, quanto di creare un’opera che desse plausibilità alla nozione di spazio teorizzata, in quei testi, come centrale per ogni creazione artistica d’avanguardia. D’altra parte già le Avanguardie Storiche si erano esercitate sul medesimo tema: Boccioni aveva proclamato che “non vi può essere rinnovamento se non attraverso la scultura d’ambiente”8, ed in effetti futuristi come Balla e Depero avevano seguito la sua indicazione nella pratica (basti l’esempio del Bal Tic Tac, 1921). I suprematisti e i costruttivisti, spinti dal credo nella funzione sociale e didattica dell’arte, avevano progettato e realizzato più di un interno, tra cui spicca l’ambiente dei proun di El Lissitzky (1923); ma in ambito astrattista si sviluppò, più che una vera arte ambientale, un rinnovamento di arredamento e design. Anche Dada e Surrealismo diedero un proprio contributo, insistendo in particolar modo sull’effetto di dépaysement soggettivo indotto dalle opere ambientali nello spettatore: indicativo, in questo senso, il labirinto Merzbau di Schwitters (1923).
Fontana sembra fare riferimento soprattutto alle esperienze futuriste e surrealiste, arricchendo queste ultime del tentativo di creare nello spettatore vissuti autoanalitici. A proposito dell’ambiente a luce nera scrive infatti a Crispolti: “Entravi trovandoti isolato con te stesso, ogni spettatore reagiva con lo stato d’animo del momento… l’uomo era solo con se stesso, con la sua coscienza, con la sua ignoranza, con la sua materia”9.
Ci vollero otto-dieci anni perché il valore dell’arte ambientale fosse riconosciuto e fatto proprio da altri: gli stessi artisti spazialisti rimasero sempre legati allo stereotipo del quadro. Il primo a cambiare pagina è Yves Klein, che con gesto mistico-dada arriva ad esporre il vuoto nel 1957. Due anni dopo, Pinot Gallizio crea la sua Grotta dell’Antimateria. Da quegli anni il ricorso all’ambiente fu generalizzato, inizialmente spinto su due binari di fondo. Il primo, quello che più propriamente può dirsi influenzato da Fontana, vede appunto nella creazione di ambienti un’occasione per stimolare nello spettatore l’analisi dei propri stati di coscienza e si associa generalmente ad atmosfere smaterializzate attraverso la luce: il riferimento filosofico potrebbe andare alla nozione husserliana di Erlebnis o a Bergson, o ancora al pensiero esistenzialista. In questo ambito vanno incluse opere come Finestra fosforescente di Manzoni (1961), gli Spazi elastici di Gianni Colombo (1964-67), gli ambienti bianchi di Enrico Castellani, i Light Cocoon di Otto Piene (1965) e molte altre realizzazioni del gruppo T e del gruppo N in Italia, del gruppo Zero in Germania e, più recentemente, gli ambienti luminosi dei californiani Nordman, Nauman, Turrel, Wheeler, Asher, Munger, Irwin.
I risultati sono naturalmente molto diversi, ma si possono individuare almeno due costanti nell’organizzazione dello spazio, previste da Fontana, tese ad indurre il senso di disorientamento: anzitutto l’utilizzo della luce artificiale, già immaginato in realtà da Marinetti e messo parzialmente in pratica (presso la casa Bragaglia, 1922) da Balla. L’effetto straniarne è evidente, ad esempio, negli Untitled di Wheeler (1970) e nei Wedgworks di Turrei (1969). Seconda costante, la negazione dell’angolo retto a favore dell’andamento curvilineo o degli angoli maggiori o minori di 90°: si pensi alle volute di neon di Fontana e, dall’altra parte. al suo progetto di labirinto per Kassel (1968). Un simile spirito anima l’obliquità di Colombo, gli ambienti senza spigoli di Castellani, il Mare ondulato di Pascali (1966), le interrelazioni speculari di Alviani (1965), i labirinti, infine, di Bob Morris: quello circolare e completamente privo di angoli (1974) e quello triangolare della collezione Gori (1982). Qui la decorazione a strisce parallele bicrome delle chiese rinascimentali, atta a mettere in evidenza le relazioni di perpendicolarità, viene usata per una costruzione in cui non si incontra un solo angolo retto né in verticale né in orizzontale: anche il pavimento giace su piano inclinato.
Il secondo filone di arte ambientale, quello che trova in Fontana un anticipatore solo in quanto primo creatore di ambienti del dopoguerra, ha indirizzo più propriamente analitico, in senso wittgensteiniano deweyano: si tende cioè a mettere in luce le caratteristiche fisiche dell’ambiente (oggettive) o i suoi correlati percettivi costanti. Vi rientrano la schiera dei minimalisti americani, da Judd a Flavin a Andre, alcuni artisti optical, e ancora in Europa Palermo, Buren, Paolini e Prini, con il suo Neon rivelatore di vuoto (1966). Tutte esperienze che si situano al polo opposto del quadro da salotto, indicando la direzione più seguita dall’arte degli anni Settanta.

Lucio Fontana, Concetto Spaziale, Attesa, 1959. Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano.

Scienza e tecnologia

“Con le risorse della tecnica moderna faremo apparire nel cielo forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose. Trasmetteremo, per radiotelevisione, espressioni artistiche di nuovo modello”10.

La vocazione scientista e tecnologica di Lucio Fontana è stata espressa dall’artista più volte in manifesti e interviste: la sua ammirazione per le scoperte della fisica contemporanea e la ferma convinzione che l’arte debba seguire, in un percorso progressivo, tutte le altre scienze umane, ricalcano un atteggiamento futurista e più latamente avanguardista, poiché presuppongono non solo l’inserimento nell’arte di nuovi mezzi quali macchine o attrezzature tecnologiche, ma anche la convinzione che l’arte sia un organismo in evoluzione continua (anche se non infinita). “Noi continuiamo l’evoluzione del mezzo nell’arte”, sintetizza l’inizio del Manifesto Tecnico.
Diversamente che per i futuristi, però, per Fontana l’aspetto rilevante del rapporto arte-scienza non è l’adozione di un principio dinamico che porti fuori dalla staticità del classicismo (che pure l’artista apostrofa come “palude dell’arte”13), o il reperire nuovi territori tecnici su cui esercitarsi, ma il porre l’attività creativa al passo con il sapere contemporaneo per restituirle il suo ruolo di interprete dell’esistenza. Una interprete che può e deve avvalersi di strumenti diversi da quelli di immediata comprensione popolare, il pennello o la tela, perché “l’arte è una scienza come la matematica… Non tutti possono capire la matematica, possono fare due più due quattro”12. L’arte deve inserirsi a pieno titolo, insomma, nel sapere di un’epoca considerato come un tutto compatto. Questa estrema fiducia nella possibilità di evoluzione attraverso la conoscenza (“Gli uomini non si uccideranno più tra loro, finiranno le guerre. Ci vorranno centinaia e forse migliaia di anni, ma la scienza porterà a quello”13) si concreta, nell’opera dell’artista, nell’attenzione a temi e a mezzi non tradizionali. Così, nel tentativo di descrivere uno spazio pluridimensionale, in linea con la teoria einsteiniana, e l’allargamento degli orizzonti percettivi umani grazie alla scienza contemporanea, Fontana utilizza nel 1949 la luce di Wood, nel 1951 il neon bianco ritorto, nel 1954 il neon ritorto colorato (anticipando Nauman. Merz, Calzolari etc.) e nello stesso anno, per un lampadario di casa privata, il tubo al neon in elemento semplice modulare: impossibile non pensare a Dan Flavin. Solo Vantongerloo, prima di lui, aveva accennato a un simile utilizzo. Nel 1952 organizza una prima, pionieristica trasmissione televisiva che preconizza non solo le realizzazioni di Nam June Paik e di coloro che hanno in seguito utilizzato la telecamera a circuito chiuso, ma anche l’arte che in tempi più recenti si è avvalsa del video come strumento computerizzato. Nelle sue prese di posizione teorica, inoltre, apre a qualsiasi mezzo tecnologico presente e venturo la possibilità di rivelarsi significativo per l’arte, ivi compresi il radar, il cinema, la fotografia (nel Manifesto Tecnico parla addirittura di “trionfo del fotogramma”) e strumenti musicali sconosciuti che “rispondano alla necessità di vaste sonorità” e producano “sensazioni dell’ampiezza richiesta”14: è presto fatto un collegamento a Brian Eno e alla sua musica d’ambiente.
In questo quadro l’esaltazione “atomica” di Baj e Dangelo, leaders del Gruppo Nucleare che accolse nel 1951 molti exspazialisti, nonché l’Arte Cinetica e Optical, nate in Italia a stretto contatto con Fontana (si pensi a Boriani, ad Alviani, a Mari, in generale ai gruppi T e N) resta l’aspetto in fondo meno importante delle sue anticipazioni sul versante scientifico e tecnologico. Sebbene, infatti, queste esperienze nascessero sotto l’insegna di un rinnovato rapporto tra percettologia, meccanica, fisica ed arte, il nesso appariva espresso in termini di ingenuo plagio scientista, ancora molto debitore delle infatuazioni futuriste per il mondo della ricerca e della produzione industriale. Non a caso, riguardo all’Arte Cinetica, Fontana commentava: “Queste macchinette che fanno tric trac… va la luce ma l’oggetto è ancora fermo, è semplicistico, troppo. Quando noi avremo il moto perpetuo, avremo la macchina che potrà trasmettere, allora. Cosa sono queste macchinette degli artisti di fronte a un oggetto che a trecento chilometri sta trasmettendo sulla Terra?”15.

Materia, concetto, oggetto

“Era già la fine del quadro, odoro, era già l’intenzione dell’oggetto: non li ho chiamati oggetti perché mi parevo troppo materialista, li ho chiamati concetti perché era il concetto nuovo di vedere il fatto mentale”16.

Che Fontana, grande manipolatore di creta e colori, avesse una dimestichezza particolare con la materia è fuor di dubbio. Fin dai suoi esordi impressionisti, dopo il fatidico 1930, l’artista impara a farla parlare da sola, a guidarla, ad assoggettarla riducendo al minimo il richiamo figurativo. Giunge persino a inventare una forma iletica primordiale, il vortice, in grado di esprimerne tutte le potenzialità autoformative e dinamiche: prefigurato nel 1930 nel progetto per la Fontana Grandi, riemerge alla metà del decennio, negli anni del contatto con Abstraction-Création, per poi farsi prepotentemente presente attorno agli anni Quaranta: quando, da simbolo della forza naturale, diventerà segno spaziale per eccellenza nei primi fogli bucati e nei neon. Viene spontaneo, al proposito, un accenno al landartista Smithson, panteista poeta della natura, che sul Gran Lago Salato (1970) si è servito di una simile figura spiraliforme.
Eppure, nonostante questa manifesta simbiosi con la materia e nonostante l’artista prosegua, lungo tutta la sua carriera creativa, un filone appunto materico (pensiamo ad esempio alle fini di Dio, relativamente tarde, dove il buco ha gli orli ricchi di pasta e di grumi), le nuove serie di opere vanno orientandosi, anno dopo anno, verso una decisa smaterializzazione. Quando questa tendenza si smarrisce, come nel caso dell’arricchimento con pietre di alcuni buchi, Fontana stesso legge il suo percorso come un ritorno all’indietro: “Fai anche delle cose sbagliate, credendo di andare avanti… Credevo che con le pietre passasse la luce… E, invece, ho capito che io devo stare proprio nella mia semplicità pura, perché è pura filosofia”17. L’abbandono della materia per problematiche più astratte è anche il criterio valutativo che gli fa preferire, ad esempio, uno scultore ibrido come Boccioni a un maestro riconosciuto (anche da lui) come Brancusi.
Tuttavia, sostenere che il puro gesto dematerializzato teorizzato dagli spazialisti e messo in pratica da Fontana apra la via al Concettuale mi sembra azzardato. È vero infatti che l’artista sostenne sempre la preminenza dell’idea, e che inoltre appoggiò entusiasticamente opere come la Linea di Manzoni o il Vuoto di Klein, artisti che in questo senso furono veramente precursori, ma era piuttosto l’eco dadaista che si avvertiva in quei gesti a convincerlo, probabilmente, mentre dovette sempre restargli estraneo l’effetto di negazione dell’opera: perché se l’Arte Concettuale “abbandona la hyle per volgersi alla morphè intenzionale18” essa mette anche “tra parentesi l’oggetto, respingendo come impura ogni implicazione sensibile19”. Ora, Fontana non desidera affatto epurare l’opera delle sue implicazioni sensibili, come si desume dai suoi argomenti sulla decorazione20 e dal suo uso libero del colore, anche pastello, dorato, argentato, sempre felice, precorritore semmai delle indulgenze postmoderne al piacere del senso. Inoltre, a differenza dei concettuali, non legge l’oggetto e il concetto come termini opposti, dei quali il primo è inessenziale all’arte, ma anzi come sinonimi (si veda la citazione in testa al paragrafo). Per lo scultore italo-argentino al polo opposto del concetto sta l’implicazione emozionale, individuale, espressionista, non dunque la realizzazione di un manufatto. Il quale, evidentemente, diventa il veicolo sempre più impersonale di un’idea: se nei tagli (1958) e nei quanta (1959) si annida ancora un gesto irripetibile, singolare come ogni grafismo, nei teatrini (1964) eseguiti in falegnameria, nelle ellissi (1967) perforate meccanicamente, nelle sculture verniciate a fuoco (1967), come del resto era stato per i neon il diretto intervento dell’artista si riduce al progetto: “Anche quelli che fanno la musica elettronica, oggi adoperano gli ingegneri elettronici”21.
Il preteso concettualismo di Fontana sembra dunque risolversi nel fare dell’artista il regista, più che l’autore materiale dell’opera. Ferma restando l’opera, che semmai tende a raggiungere strutture semplificate al massimo e ad accentuare i suoi valori oggettuali: la propensione in questo senso, che può accostare Fontana anche al Minimalismo, era già stata prefigurata nel Fiore del 1952, e in generale nell’insistenza sulla pittura monocroma (che precede di almeno sei-sette anni la moda pre-minimale suggellata da Monochrome Malerei, la mostra collettiva organizzata nel 1960 da Udo Kultermann). Quanto all’artista-regista, un simile atteggiamento era già presente negli artisti di De Stijl e, soprattutto, nella Bauhaus, antesignana tra le scuole di design. Non a caso tra le ultime sculture di Fontana vi sono dei multipli: proprio il carattere progettuale dell’intervento ne consente la riproducibilità. È appena il caso di accennare alla notevole influenza che Fontana ha esercitato sul mondo del design milanese e italiano, ricordando i contatti personali assai stretti che lo legarono non solo alla generazione dei razionalisti, ma anche di quelli che poi avrebbero portato la bandiera postmoderna: Marcello Nizzoli, con cui nel 1936 lavorò addirittura in équipe, Marco Zanuso, Bruno Munari, Enzo Mari, Dadamaino, Nanda Vigo e, non ultimo, Ettore Sottsass, suo seguace negli anni di Spazialismo e suo attento ammiratore in seguito.

Lucio Fontana, Ambiente Spaziale, 1966. Courtesy Fondazione Lucio Fontana, Milano.

Voglia di Fontana

“Poi, un po’ mi rassegno perché dico… è inutile, la modestia è anche cretina. Beh, tu hai già fatto abbastanza, forse i giovani fanno quello che tu volevi fare e non sei riuscito perché i tempi non erano maturi… li hai forse intuiti”22.

Fontana allora è un profeta? Sicuramente si è dimostrato uno dei più grandi artisti del nostro dopoguerra se non addirittura il più grande. Ma le esaltazioni mielose mistificano più di quanto non spieghino, e rischiano di far dimenticare che Fontana fu anche artista tradizionale, appassionato ai temi erotici e preoccupato di risolvere problematiche ancora postimpressioniste, ad esempio il rapporto tra la luce e la superficie: il buco e il taglio, cioè, possono essere letti anche come un richiamo figurativo o come il passaggio tra il massimo del valore cromatico e il suo minimo, il buio. Ed anche dietro alle molte anticipazioni ascritte al genio di Fontana credo si possa trovare, senza per questo nulla togliergli, una spiegazione plausibile.
L’artista, che nella sua lunga fase giovanile ha conosciuto e praticato tutti i linguaggi delle Avanguardie Storiche (nell’ordine: Cubismo, Espressionismo, Surrealismo, Astrattismo, Futurismo, Dadaismo) ha saputo coagularne i messaggi dopo gli eventi che hanno frantumato l’atmosfera prebellica. Ha adoperato il proprio innegabile intuito per cogliere gli elementi che si sarebbero, poi, rivelati fondanti anche per le neo-avanguardie; le quali, più che imporre direzioni decisamente nuove all’arte, non hanno fatto che esasperare e rendere espliciti alcuni presupposti già dati nella prima parte del secolo. Giano bifronte per motivi generazionali, con una faccia rivolta al prima e l’altra al dopo guerra, si può dire di lui che forse non ha inventato niente, ma ha capito prima di tutti gli altri quali fossero le eredità da conservare; aiutato, in questo, dall’elasticità con cui è riuscito a non legarsi ad alcun movimento specifico (se non quelli da lui stesso creati) e a nessuna tradizione nazionale: ciò che ne avrebbe fatto, come è accaduto a quasi tutti i suoi coetanei europei, un semplice epigono. L’avere dieci, venti, trent’anni di più rispetto ai neoavanguardisti è stato causa del suo isolamento critico, ma anche della sua capacità predittiva.
Gli aspetti che la catastrofe bellica deve aver fatto apparire a Fontana particolarmente invecchiati, nella poetica delle Avanguardie, mi sembrano essenzialmente due e collegati tra loro: anzitutto, l’idea che attraverso l’arte si potesse davvero cambiare il mondo, oltre che suggerire direzioni di miglioramento o criticarne alcuni meccanismi perversi. Quante speranze costruttiviste e futuriste aveva visto disattese! Il ruolo dell’arte ne veniva dunque relativizzato: “Fisici, biologi… la continuazione della vita attraverso questi viaggi, la possibilità di resuscitare tra cento anni… Cosa vuole che uno tra duecento anni vada a pensare se è vissuto Fontana o Castellani”23, e ne conseguiva, dal punto di vista dell’operazione creativa, un ripiegamento su se stessa e sui propri problemi formali-linguistici. In secondo luogo, appariva decisamente impolverato l’atteggiamento di devozione a un movimento artistico-ideale unico, quasi fisse una fede di vita. La vocazione autoanalitica dell’arte si è resa particolarmente esplicita nei tardi anni Sessanta e nei Settanta, anche se varie branche delle neoavanguardie hanno rinnovato la tendenza all’engagement. Ma dopo le delusioni del 1968 e del radicalismo anni Settanta l’abbandono dell’ideologia e il connesso eclettismo stilistico sono oggi la norma, pur nell’ambito di un rinnovato interesse per l’eredità delle Avanguardie. E questo spiega come mai, anche nei tardi anni Ottanta, l’attualità di Fontana torni a rinascere come una fenica, aiutata dall’atmosfera neo-moderna che segue il recente exploit espressionista.
È in questi anni che, per la prima volta in America24, alcuni artisti hanno riletto Fontana facendone esplicitamente un proprio riferimento: pensiamo a Schuyff, che si ispira ai teatrini appiattendoli su superficie unica e conservando l’effetto di ombra propria e portata; o a Taaffe, che riproduce appiattiti i giochi di luce generati da un illusorio movimento della superficie. Quanto all’Italia, sono molti i giovani artisti che echeggiano il suo lavoro, più o meno dichiaratamente: a Milano, Mazzucconi sostituisce i bulloni ai buchi, mentre Fullone ne ha riletto le pietre e ripreso la forma ovale. A Roma, Pirri svolge un’operazione simile a quella di Schuyff e Taaffe sacrificando, però, ogni aspetto cromatico e Renda sembra ispirarsi, coi suoi oggetti-mosaico, alle figure che Fontana compose nei tardi anni Trenta appunto con questa tecnica; tutti coloro che oggi lavorano sulla variazione sul tema riprendono una sensibilità cara a Fontana25.
L’artista non avrebbe, probabilmente, apprezzato le teorie sull’arresto dell’evoluzione dell’arte né tantomeno i presupposti critici della Transavanguardia. Ma ora, quando persino Lyotard mette in chiaro che il postmoderno non è che un momento del moderno, e che la nozione non nega affatto una cultura in evoluzione26. Fontana si sentirebbe più a suo agio e forse ritroverebbe un po’ di sé nell’arte giovane: per fare solo qualche esempio, senza ambizioni di certezza, nel gesto libero, astratto, comportamentista di Cindy Sherman, nell’estensione dell’arte oltre i confini del quadro in Mucha: nell’attenzione per le relazioni tra forma e contesto in Jan Vercruysse; nell’adeguamento dell’arte ai nuovi orizzonti dello scibile e alle nuove condizioni della vita quotidiana in Rosemarie Trockel, che fa la maglia col computer; nell’uso del video ormai generalizzato: nel tentativo di descrivere la Teoria delle catastrofi di Thom da parte di Fischli & Weiss; nell’uso del neon in Jenny Holzer; nell’utilizzo di materiali e procedimenti industriali in Jeff Koons; nella costruzione di oggetti da parte di Haim Steinbach. Nella riscoperta del concetto, soprattutto, espresso non come negli anni Settanta in termini immateriali, privando l’opera di una esistenza concreta, ma come oggi accade proprio attraverso un’opera che c’è.

“Sennò continua a dire che l’è un bus, e ciao”27.

Altri articoli di

Angela Vettese